(it) Italia: Testi e materiali sull’epidemia in corso [in aggiornamento]

Italia: Testi e materiali sull’epidemia in corso [in aggiornamento]

Pubblichiamo una serie di testi di varia natura che a partire da concetti anche differenti affrontano la questione dell’epidemia in corso e l’attuale situazione in Italia e in Europa. Questa pagina è in continuo aggiornamento.


In corpore vili (12/03/2020)

«Scopo del terrore e dei suoi atti è di estorcere totalmente l’adattamento degli uomini al proprio principio, affinché anch’essi riconoscano, in definitiva, ancora solo uno scopo: quello dell’autoconservazione. Quanto più gli uomini hanno in mente senza scrupoli la propria sopravvivenza, tanto più diventano marionette psicologiche di un sistema che non ha altro scopo che mantenere se stesso al potere» – Leo Löwenthal, 1945.

Ecco, ci siamo. Da poche ore è stato dichiarato lo stato d’emergenza sanitaria su tutto il territorio nazionale. Serrata quasi totale. Strade e piazze semi-deserte. Proibito uscire di casa senza una ragione ritenuta valida (da chi? ma dalle autorità, naturalmente). Proibito incontrarsi e abbracciarsi. Proibito organizzare qualsivoglia iniziativa che preveda anche solo un minimo di presenza umana (dalle feste ai raduni). Proibito stare troppo vicini. Sospensione di ogni socialità. Ammonimento a stare chiusi in casa il più possibile, aggrappati ad un qualche dispositivo elettronico in attesa di notizie. Obbligo di seguire le direttive. Obbligo di portare sempre con sé una «autocertificazione» che giustifichi i propri spostamenti, anche se si esce a piedi. Per chi non dovesse sottomettersi a simili misure è prevista una sanzione che può prevedere l’arresto e la detenzione.

E tutto ciò per cosa? Per un virus che tuttora divide gli stessi esperti istituzionali a proposito della sua effettiva pericolosità, come dimostrano le stesse polemiche fra virologi di pareri opposti (per non parlare della sostanziale indifferenza che gli mostrano non pochi paesi europei)? E se anziché il coronavirus, con il suo tasso di mortalità del 2-3% ovunque nel mondo tranne che nel nord Italia (chissà se è l’acido nucleico ad incattivirsi a contatto con la polenta, oppure se è la schiatta padana ad essere gracilina), fosse arrivato in queste lande un Ebola capace di decimare la popolazione dell’80-90%, cosa sarebbe accaduto? Si passava direttamente a sterilizzare i focolai tramite bombardamenti?

Certo, tenuto conto dei legami tra le dinamiche delle società industriali e la moderna concezione occidentale della libertà, non sorprende che per arginare un contagio virale si applichi una politica che impone a tutti gli arresti domiciliari e il coprifuoco. Ciò che stupisce semmai è che tali misure vengano recepite così passivamente, non soltanto tollerate, ma introiettate e giustificate dalla quasi totalità delle persone. E non solo dai menestrelli di corte che invitano tutti a starsene a casa, non solo dai cittadini perbene che si incoraggiano (e si controllano) a vicenda sicuri che «andrà tutto bene», ma persino da chi oggi — davanti allo spauracchio infettivo — non è più disponibile a sentire i (fino a ieri osannati) ritornelli contro lo «stato di eccezione», preferendo schierarsi a favore di una fantomatica materialità dei fatti. Per quel che vale, giacché mai come nei momenti di panico (con l’eclissi della ragione che comporta) ogni parola risulta inutile, torniamo sullo psicodramma popolare in corso nel Belpaese, sui suoi effetti sociali più che sulle sue cause biologiche.

Che questo virus provenga dai pipistrelli o da qualche laboratorio militare segreto, cosa cambia nell’immediato? Nulla, una ipotesi vale l’altra. Al di là della mancanza di informazioni e di competenze più precise al riguardo, resta pur sempre valida una banale constatazione: virus simili possono essere effettivamente trasmessi da determinate specie animali, così come fra i tanti apprendisti stregoni delle «armi non convenzionali» ci può ben essere qualcuno di più cinico o sbadato. E allora? Ciò detto, dovrebbe essere fin troppo scontato che nel mondo attuale è l’informazione a decretare ciò che esiste. Letteralmente, esiste solo ciò di cui parlano i media. E ciò che tacciono, non esiste. Da questo punto di vista, ha ragione chi sostiene che per fermare l’epidemia basterebbe spegnere la televisione. Senza l’allarmismo mediatico che attorno ad essa è stato sollevato, inizialmente solo qui in Italia, nessuno avrebbe prestato grande attenzione ad una imprevista forma influenzale, le cui vittime sarebbero state ricordate solo dai loro cari e da qualche statistica. Non sarebbe la prima volta. È ciò che è accaduto con le 20.000 vittime provocate qui in Italia a partire dall’autunno del 1969 dall’influenza di Hong Kong, la cosiddetta «influenza spaziale». All’epoca i mass-media ne parlarono parecchio, era dall’anno precedente che seminava morte in giro per il pianeta, eppure venne considerata semplicemente come una forma influenzale più virulenta del solito. Tutto qui. Del resto, ve lo immaginate cosa avrebbe provocato in Italia la proclamazione dello stato di emergenza nel dicembre del 1969? Alle autorità avrebbe senz’altro fatto comodo, ma sapevano di non poterselo permettere. Sarebbe stata l’insurrezione. Si dovettero accontentare della paura seminata dalle stragi di Stato.

Ora, è sensato ritenere che un virus estremo-orientale sia esploso nel mondo con tale virulenza solo qui in Italia? È assai più verosimile che solo qui in Italia gli organi d’informazione abbiano deciso di dare risalto alla notizia dell’arrivo dell’epidemia. Che si sia trattato di una precisa scelta o di un errore di comunicazione, questo potrà essere a lungo materia di dibattito. Ad essere fin troppo palese, in compenso, è il panico che hanno scatenato. E a chi e a cosa esso giovi.

Perché, bisogna ammetterlo: non c’è nulla in grado di seminare terrore più di un virus. È il nemico perfetto, invisibile e potenzialmente onnipresente. A differenza di quanto accade con gli jihadisti medio-orientali, la sua minaccia estende e legittima pressoché all’infinito la necessità di controllo. Non vanno sorvegliati di tanto in tanto i possibili carnefici (alcuni), ma sempre e comunque le possibili vittime (tutti quanti). Non è sospetto «l’arabo» che si aggira con fare losco in luoghi considerati sensibili, ma chi respira perché respira. Se si trasforma un problema sanitario in un problema di ordine pubblico, se si pensa che il modo migliore per curare sia quello di reprimere, allora diventa chiaro il motivo per cui uno dei candidati al ruolo di super-commissario della lotta contro il coronavirus fosse l’ex-capo della polizia ai tempi del G8 di Genova 2001 ed attuale presidente della principale industria bellica italiana (ma poiché gli affari sono affari, alla fine gli è stato preferito un manager dalla formazione militare, l’amministratore delegato dell’agenzia nazionale per gli investimenti e lo sviluppo dell’impresa). Si tratta forse di rispondere alle esigenze espresse in Senato da un noto politico, il quale ha dichiarato che «questa è la terza guerra mondiale che la nostra generazione è impegnata a vivere, destinata a cambiare le nostre abitudini più dell’11 settembre»? Dopo Al-Qaeda, ecco il Covid-19. Ed ecco anche i bollettini di questa guerra al tempo stesso virtuale e virale, i numeri di morti e feriti, le cronache dai fronti di battaglia, la narrazione degli atti di sacrificio e di eroismo. Ora, a cosa è mai servita nel corso della storia la retorica della propaganda bellica, se non a mettere da parte ogni divergenza e mobilitarsi per fare quadrato attorno alle istituzioni? Nel momento del pericolo, non ci devono essere né divisioni né tantomeno critiche, ma solo unanime adesione dietro alla bandiera della patria. Così, in queste ore all’interno dei palazzi si sta ventilando l’ipotesi di dare vita ad un governo di salute pubblica. Senza dimenticare un primo effetto collaterale niente affatto sgradito: chiunque esca fuori dal coro non può che essere un disfattista, meritevole di linciaggio per alto tradimento. Come già detto, noi non sappiamo se questa emergenza sia il frutto di un premeditato progetto strategico o di una corsa ai ripari dopo un errore compiuto. Sappiamo però che — oltre a spianare ogni resistenza al dominio di Big Pharma sulle nostre esistenze — servirà a diffondere e consolidare la servitù volontaria, a far introiettare l’obbedienza, ad abituare ad accettare ciò che è inaccettabile. Cosa c’è di meglio per un governo che ha perduto da tempo ogni minima parvenza di credibilità, e per estensione per una civiltà palesemente in putrefazione? La scommessa lanciata dal governo italiano è enorme: istituire una zona rossa di 300.000 chilometri quadrati come risposta al nulla. Può una popolazione di 60 milioni di persone scattare sull’attenti e gettarsi ai piedi di chi le promette di salvarla da una minaccia inesistente, come un cane di Pavlov sbavava al semplice suono di una campanella? Si tratta di un esperimento sociale il cui interesse per i risultati travalica i confini italiani. La fine delle risorse naturali, gli effetti della degradazione ambientale ed il costante sovraffollamento annunciano lo scatenamento un po’ dovunque di conflitti la cui prevenzione e gestione da parte del potere richiederà misure draconiane. È ciò che alcuni hanno già battezzato «ecofascismo», le cui prime misure non saranno molto dissimili da quelle prese oggi dal governo italiano (che infatti farebbero la delizia di ogni Stato di polizia). Per testare su larga scala provvedimenti del genere, l’Italia è il paese catalettico giusto e un virus è il pretesto trasversale perfetto.

Finora i risultati per gli ingegneri di anime ci sembrano entusiasmanti. Con pochissime eccezioni, tutti sono disponibili a rinunciare ad ogni libertà e dignità in cambio dell’illusione della salvezza. Se poi il vento a favore dovesse cambiare direzione, per impedire l’effetto boomerang potranno sempre annunciare che il pericoloso virus è stato debellato. Per adesso a farne le spese sono stati i detenuti uccisi o massacrati nel corso delle rivolte scoppiate in una trentina di penitenziari dopo la sospensione dei colloqui. Ma ovviamente non si è trattato di imbarazzante «macelleria messicana», bensì di lodevole disinfestazione italiana. Che l’emergenza offra a chi esercita l’autorità la possibilità di adottare pubblicamente comportamenti fino a ieri tenuti segreti, lo si nota anche nei piccoli fatti di cronaca: a Monza una donna di 78 anni visitata al policlinico perché affetta da febbre, tosse e difficoltà respiratoria, è stata sottoposta a Tso dopo aver rifiutato di farsi ospedalizzare per sospetto coronavirus. Poiché il Tso, istituito nel 1978 con la famosa legge 180, può essere applicato solo a cosiddetti malati psichici, quel ricovero coatto è stato un «abuso di potere» (come amano dire le anime belle democratiche). Uno dei tanti commessi quotidianamente, solo che in questo caso non è stato necessario minimizzarlo od occultarlo, ed è stato reso pubblico senza che si sollevasse la minima critica. Allo stesso modo, a Roma sono stati arrestati sette stranieri rei di… giocare a carte in un parco. È il minimo che potesse capitare a possibili untori privi di ogni «senso di responsabilità».

Già, la responsabilità. Si tratta di una parola oggi sulla bocca di tutti. Bisogna essere responsabili, sollecitazione che viene martellata di continuo e che tradotta dalla neo-lingua del potere significa una cosa sola: bisogna obbedire alle direttive. Eppure non è difficile capire che è proprio obbedendo che si evita ogni responsabilità. La responsabilità ha a che fare con la coscienza, il felice incontro fra sensibilità ed intelligenza. Indossare una mascherina o stare tappati in casa solo perché l’ha dettato un funzionario del governo non denota responsabilità attiva, bensì obbedienza passiva. Non è frutto di intelligenza e sensibilità, ma di creduloneria e dabbenaggine condite con una buona dose di pavidità. Per essere un atto di responsabilità dovrebbe sorgere dal cuore e dalla testa di ogni individuo, non venire ordinato dall’alto ed imposto dietro minaccia di punizione. Ma, come è facile intuire, se c’è una cosa che il potere teme più di ogni altra è proprio la coscienza. Perché è dalla coscienza che nasce la contestazione e la rivolta. Ed è proprio per sterilizzare ogni coscienza che veniamo bombardati 24 ore su 24 dai più futili programmi televisivi, intrattenimenti telematici, chiacchiericci radiofonici, cinguettii telefonici… mastodontica impresa di formattazione sociale il cui scopo è la produzione dell’idiozia di massa.

Ora, se si considerassero le ragioni avanzate per dichiarare questa emergenza con un minimo di sensibilità e di intelligenza, cosa ne verrebbe fuori? Che uno stato di emergenza inaccettabile è stato dichiarato per motivi inverosimili da un governo inattendibile. Può infatti uno Stato che ignora le 83.000 vittime provocate ogni anno da un mercato di cui detiene il monopolio, e che gli frutta un ricavo netto di 7,5 miliardi di euro, essere credibile quando afferma di istituire in tutto il paese una zona rossa per arginare la diffusione di un virus che — a detta di molti fra gli stessi virologi — contribuirà a provocare la morte di alcune centinaia di persone già ammalate, ammazzandone magari qualcuna direttamente? Forse che per impedire che ogni anno 80.000 persone crepino per l’inquinamento atmosferico, lorsignori hanno mai pensato di bloccare su tutto il territorio nazionale le fabbriche, le centrali elettriche, le automobili? Ed è questo stesso Stato che negli ultimi dieci anni ha chiuso oltre 150 ospedali ad invocare oggi maggiore responsabilità?

Quanto alla materialità dei fatti, ci sia permesso di dubitare che si voglia affrontarla veramente. Di certo non lo vogliono i sinistri imbecilli che di fronte al massacro attuato in ogni ambito da questa società sono capaci solo di tifare per la rivincita dello Stato sociale buono (con la sua sanità pubblica e le sue grandi opere utili) sullo Stato liberale cattivo (taccagno con i poveri e generoso con i ricchi, del tutto impreparato ed approssimativo ad affrontare la “crisi”). E ancor meno lo vogliono i bravi cittadini pronti a rimanere a digiuno di libertà pur di avere briciole di sicurezza.

Perché affrontare la materialità dei fatti significa anche e soprattutto considerare cosa si voglia fare del proprio corpo e della propria vita. Significa anche accettare che la morte ponga fine alla vita, perfino a causa di una pandemia. Significa anche rispettare la morte, e non pensare di poterla evitare affidandosi alla medicina. Tutti moriremo, nessuno escluso. È la condizione umana: soffriamo, ci ammaliamo, moriamo. A volte con poco, a volte con tanto dolore. La medicalizzazione forsennata, con il suo delirante proposito di sconfiggere la morte, non fa altro che radicare l’idea secondo cui la vita va conservata, non vissuta. Non è la stessa cosa.

Se la salute — come l’OMS si vanta di sostenere fin dal 1948 — non è la semplice assenza di malattia, bensì il pieno benessere fisico, psichico e sociale, è evidente che l’umanità intera è una malata cronica, e non certo a causa di un virus. E questo benessere totale come dovrebbe essere ottenuto, con un vaccino ed un antibiotico da assumere in ambiente asettico, oppure con una vita vissuta all’insegna della libertà e dell’autonomia? Se negli ospedali spacciano così facilmente la «presenza dei parametri vitali» per «forma di vita», non è perché si è ormai dimenticata la differenza fra vita e sopravvivenza?Il leone, il cosiddetto re degli animali, simbolo di forza e bellezza, vive mediamente 10-12 anni finché è libero nella savana. Quando si trova in uno zoo, al sicuro, la durata della sua vita può raddoppiare. Chiuso in una gabbia è meno bello, meno forte — è triste ed obeso. Gli hanno tolto il rischio della libertà per dargli la certezza della sicurezza. Ma in questa maniera non vive più, può al massimo sopravvivere. L’essere umano è il solo animale che preferisce trascorrere i suoi giorni in cattività piuttosto che in natura. Non ha bisogno di un cacciatore che gli punti contro un fucile, ci sta volontariamente dietro le sbarre. Circondato ed intontito da protesi tecnologiche, la natura non sa più nemmeno cosa sia. Ed è felice, persino orgoglioso della superiorità della sua intelligenza. Avendo imparato a fare di conto, sa che otto giorni da essere umano sono più di uno da leone. I suoi parametri vitali sono presenti, soprattutto quello considerato fondamentale dalla nostra società: il consumo di merci.

C’è un che di paradossale nel fatto che gli abitanti della nostra titanica civiltà, così appassionata di superlativi, si agitino in preda al nervosismo di fronte ad uno dei più minuscoli microrganismi viventi. Come osano poche decine di milionesimi di centimetro di materiale genetico mettere a repentaglio la nostra pacifica esistenza? È la natura. Detto brutalmente fra noi, considerato ciò che le abbiamo fatto sarebbe anche giusto che ci spazzasse via. E tutti i vaccini, le terapie intensive, gli ospedali del mondo, non potranno mai farci nulla. Anziché pretendere di domarla, dovremmo (re)imparare a convivere con la natura. In società selvagge, cioè senza rapporti di potere, non in Stati civili. Ma questo comporterebbe un «cambio di comportamento» assai poco gradito a chi ci governa, a chi vorrebbe governarci, a chi vuole essere governato.

[12/3/20]

Fonte: finimondo.org.


Spoleto – Tutti fuori senza paura (13/03/2020)

Da meno di una settimana sull’Italia è calata la mannaia di una legislazione di emergenza – progressivamente inasprita ogni 48 ore – per arginare la pandemia del nuovo Coronavirus, il Covid-19. Siamo nelle condizioni nelle quali non si può più nemmeno uscire di casa senza un permesso scritto delle autorità.

Abbiamo visto negli occhi la debolezza intrinseca, solitamente velata, della nostra società. Il consumismo e la globalizzazione che da panacea di tutti i mali si mutano nel peggiore degli incubi. L’eclettismo amministrativo dei politicanti: prima la corsa alla normalizzazione, volta a tranquillizzare e svalutare i pericoli, poi la repentina svolta repressiva di massa; il tutto trasmesso a reti unificate dai governanti attraverso i media, unico canale di socializzazione alienata che viene  ormai concessa agli individui. Il tutto nella supina accettazione di milioni di sudditi obbedienti, pronti a trasformarsi in spie che chiamano le forze dell’ordine per disperdere nuclei di ragazzini che giocano o i pochi che resistono alla psicosi per fare una passeggiata.

Perché, a questa condizione distopica, c’è chi si ribella. Caso emblematico le straordinarie rivolte che hanno riguardato una cinquantina di carceri italiane, devastando e rendendo inagibili dozzine di sezioni, con un grandioso episodio di evasione collettiva a Foggia. Lo Stato non ha esitato a reagire con una violenza senza precedenti dagli anni ’70: finora 14 morti accertate tra Modena, Rieti e Bologna. Alcuni per “overdose”, dicono i media, chi massacrato. Sappiamo bene di che pasta sono fatti i secondini e chi li comanda, tanto più in un momento nel quale questi hanno la totale copertura politica e la pressoché totale censura degli organi di informazione. A Modena si sono uditi distintamente degli spari e gli stessi carcerati hanno chiesto aiuto affermando che li stavano massacrando.

In una condizione di trattamento sanitario obbligatorio di massa, mai come adesso l’intera informazione pubblica è sotto il controllo dell’ideologia di Stato, ogni dibattito sospeso, ogni dubbio qualificato come atto di alto tradimento.

Ci sembra indicativo, in questo quadro di militarizzazione sanitaria, un episodio che è avvenuto il 10 marzo a Spoleto. Tre nostri compagni sono stati fermati immediatamente dopo aver affisso uno striscione e denunciati. Prima pedinati da agenti in borghese e poi fermati da una pattuglia dei carabinieri. Una volta rifiutatisi di seguire gli sbirri in caserma oltre che per violazione del decreto emergenziale sul Coronavirus e affissione abusiva, sono partite le denunce per resistenza a pubblico ufficiale. Un secondo striscione è stato sequestrato ancor prima di essere affisso, altri sono comunque comparsi in giro per la città.

Questi i testi:
TUTTI FUORI SENZA PAURA (A)
COMPLICI E SOLIDALI CON I CARCERATI IN RIVOLTA
MODENA E RIETI: SECONDINI ASSASSINI
CONTRO LO STATO MILITARE EVASIONE GENERALE

Con la ferma intenzione di continuare a rifiutare l’autocarcerazione, prima o dopo il 3 Aprile,

Anarchici a Spoleto


Il peggiore dei virus… l’autorità (14/03/2020)

Il macabro bilancio dei decessi aumenta di giorno in giorno, e nell’immaginario di ciascuno prende posto la sensazione, dapprima vaga e poi via via più forte, d’essere sempre più minacciati dal Triste Mietitore. Per centinaia di milioni di esseri umani, questo immaginario non è certamente nuovo, quello della morte che può colpire chiunque, in qualsiasi momento. Basti pensare ai dannati della terra sacrificati quotidianamente sull’altare del potere e del profitto: coloro che sopravvivono sotto le bombe degli Stati, in mezzo a infinite guerre per il petrolio o per le risorse minerarie, coloro che coabitano con la radioattività invisibile provocata da incidenti o da scorie nucleari, coloro che attraversano il Sahel o il Mediterraneo e che sono rinchiusi in campi di concentramento per immigrati, coloro che vengono ridotti a brani di carne e ossa dalla miseria e dalla devastazione generate dall’agroindustria e dall’estrazione di materie prime… E anche nelle terre in cui abitiamo, in epoche non molto lontane, abbiamo conosciuto il terrore delle macellerie su scala industriale, dei bombardamenti, dei campi di sterminio… creati sempre dalla sete di potere e di ricchezza degli Stati e dei padroni, sempre fedelmente istituiti da eserciti e polizia…

Ma no, oggi non stiamo parlando di quei volti di disperati che cerchiamo costantemente di tenere distanti dai nostri occhi e dalle nostre teste, né di una storia ormai passata. Il terrore comincia a diffondersi nella culla del regno della merce e della pace sociale ed è causato da un virus che può attaccare chiunque — anche se ovviamente non tutti avranno le stesse possibilità di curarsi. E in un mondo in cui si è abituati alla menzogna, in cui l’uso di cifre e statistiche è uno dei principali mezzi di manipolazione mediatica, in un mondo in cui la verità è continuamente nascosta, mutilata e trasformata dai media, possiamo solo tentare di mettere insieme i pezzi, di fare ipotesi, provare a resistere a questa mobilitazione delle menti e porsi la domanda: in quale direzione stiamo andando?

In Cina, poi in Italia, vengono imposte nuove misure repressive giorno dopo giorno, fino a raggiungere il limite che nessuno Stato aveva ancora osato varcare: il divieto di uscire di casa e di spostarsi sul territorio tranne che per motivi di lavoro o per stretta necessità. Nemmeno la guerra avrebbe potuto consentire l’accettazione di misure di tale portata da parte della popolazione. Ma questo nuovo totalitarismo ha il volto della Scienza e della Medicina, della neutralità e dell’interesse comune. Le aziende farmaceutiche, delle telecomunicazioni e delle nuove tecnologie troveranno la soluzione. In Cina, l’imposizione della geolocalizzazione per segnalare qualsiasi spostamento e ogni caso di infezione, il riconoscimento facciale e il commercio elettronico aiutano lo Stato a garantire la reclusione di ogni cittadino in casa propria. Oggi gli stessi Stati che hanno fondato la loro esistenza su detenzione, guerra e massacro, anche del loro stesso popolo, impongono la loro «protezione» attraverso divieti, confini e uomini armati. Quanto durerà questa situazione? Due settimane, un mese, un anno? È risaputo che lo stato di emergenza dichiarato dopo gli attentati è stato rinnovato più volte, fino all’integrazione definitiva delle misure di emergenza nella legislazione francese. Dove ci porterà questa nuova emergenza?

Un virus è un fenomeno biologico, ma il contesto in cui nasce, la sua propagazione e la sua gestione sono questioni sociali. In Amazzonia, in Africa o in Oceania, intere popolazioni sono state sterminate dai virus portati dai coloni, mentre questi imponevano il loro dominio e il loro modo di vivere. Nelle foreste tropicali, gli eserciti, i commercianti e i missionari hanno spinto le persone — che prima occupavano lil territorio in ordine sparso — a concentrarsi attorno a scuole, nei villaggi o nelle città. Ciò ha notevolmente facilitato la diffusione di epidemie devastanti. Oggi metà della popolazione mondiale abita in città, intorno ai templi del Capitale, e si nutre dei prodotti dell’agroindustria e dell’allevamento intensivo. Ogni possibilità di autonomia è stata sradicata dagli Stati e dall’economia di mercato. E finché la mega-macchina del dominio continuerà a funzionare, l’esistenza umana sarà sempre più soggetta a catastrofi che non hanno granché di «naturale», e ad una gestione da parte di coloro che ci privano di qualsiasi possibilità di determinare la nostra vita.

A meno che… in uno scenario sempre più oscuro e inquietante, gli esseri umani decidano di vivere da esseri liberi anche se solo per poche ore, pochi giorni o pochi anni prima della fine — piuttosto che rinchiudersi in un buco di paura e sottomissione. Come hanno fatto i prigionieri in 30 carceri italiane, di fronte al divieto di ricevere visite imposto a causa del Covid-19, ribellandosi ai propri sequestratori, devastando e bruciando le loro gabbie e, in alcuni casi, riuscendo a evadere.

Ora e sempre in lotta per la libertà!

[Volantino distribuito a Parigi il 14 marzo 2020, durante la manifestazione dei Gilet gialli].


Ai morti di Modena e ai suoi rivoltosi (16/03/2020)

È passata poco più di una settimana dalla rivolta nel carcere di Modena e i media si son già dimenticati del massacro avvenuto in quel carcere e negli altri dove la rivolta è divampata pochi giorni fa. Nove morti solo a Modena.

Chi scrive, alcuni di loro li ha conosciuti perché se li è trovati nella cella a fianco fino ad un mese fa e in questi giorni, ci ha perso il sonno nel pensarli.

Uomini con i quali si cercava di discutere su cosa si potesse fare per migliorare la situazione che si stava creando nel periodo precedente.

Per molti cominciava a pesare quel clima creato dalla nuova direttrice Maria Martone la quale, per ordine del DAP, stava risistemando i detenuti in modo restrittivo. “C’è bisogno di posto” si diceva in febbraio “dovete venirci incontro”, il tutto condito da minacce neanche troppo velate di possibili trasferimenti o altro nel caso in cui i detenuti non collaborassero passivamente alle necessità della nuova direzione. Questo clima si intrecciava ai classici problemi di ogni luogo di restrizione: le negligenze e le angherie degli uomini in divisa, della burocrazia del sistema carcere, del cibo pessimo, della mancanza di una copertura sanitaria seria che non fosse la famosa terapia nonché la totale solitudine e disperazione di persone abbandonate e senza nessun aiuto da fuori. La paura del virus, può essere stata una miccia in un calderone pieno di rabbia e disperazione, ha dato voce ai corpi e alle gole degli oppressi, che per colpa di questa società si trovano rinchiusi dentro le galere. Troppe cose, troppe, sono state dette sulla rivolta del carcere di Modena sputando addosso ai morti e ai prigionieri tutti di quel carcere. Quasi nessuno si interroga seriamente e in profondità sul perché tutto questo sia accaduto,. Non c’è bisogno di nessuna regia occulta per capire che è causa del mondo  stesso del carcere con tutti i problemi delle persone recluse. Nel momento della rabbia, la diffidenza e lo scetticismo cadono e una massa di individui si unisce, ognuno con il suo dolore, con la sua voglia di riscatto e trovano la forza di far sentire con decisione e coraggio anni di repressione di Stato pagata sulla propria pelle. Chi non ha mai dormito dentro una cella, dalla parte del blindo del prigioniero, non può capire cosa voglia dire stare dentro al carcere. Tutti quelli che si son riempiti la bocca come avvoltoi con questi fatti non meritano ascolto perché non sanno di cosa parlano, tanto i morti sono tutti “tunisini tossici”, monnezza dice qualcuno. C’è chi parla di aprire forni, di bruciarli vivi. Chi scrive ha visto si persone che  usavano le maledette terapie, non tutti riescono a vivere il carcere in modo lucido, ma dire che è stata assaltata l’infermeria e che c’è stato un abuso di farmaci a noi questo non ci interessa. Il nostro giudizio a riguardo è come la bussola che indica il Nord anche quando la scuoti, il nostro indice indica sempre la stessa direzione, la colpa di quelle morti è dello Stato: dall’ultima guardia carceraria alla volontaria che giustifica l’operato della direzione e chiede quiete e sicurezza, dalle stellette del comandante, al Ministro Bonafede, a chi come Salvini diceva “ve l’avevo detto”. Anche noi diciamo “ve l’avevamo detto”, ma in un verso completamente contrario al suo. Noi lottiamo per la libertà di tutti e tutte,  lontani un abisso da lui che vuole un carcere militarizzato. Si lamenta che le guardie avevano pochi mezzi, ma se è stato sparato del piombo e si vede benissimo una delle guardie del magazzino con il mitra in mano che mira ad altezza uomo?! Quali mezzi mancano? I blindati? I mitra? I manganelli? Gli idranti? Gli elicotteri? Le richieste dei detenuti non solo vengono sminuite, ma vengono cancellate le rivendicazioni prettamente politiche delle loro richieste, quello che è successo non è solo disperazione. Anzi, il rimbalzo tra carceri delle proteste fa capire che proprio chi ha limitata la libertà è l’unico che ad oggi sia riuscito a dare una risposta collettiva alle restrizioni imposte dallo Stato per l’emergenza coronavirus. Da qui non si tornerà indietro si dice spesso in questi giorni, è vero anche per il carcere. Queste rivolte faranno si che da Roma verranno presi provvedimenti sempre più restrittivi perché è l’unica lingua che una struttura come il DAP comprende, le rivolte prossime future verranno represse e intanto le notizie si susseguono di continui pestaggi di massa dei detenuti indipendentemente se uno ha partecipato o no alle rivolte.

L’unica comunicazione da parte del Ministero sono le botte in modo tale che tutti e tutte si ricordino di non osare più ribellarsi perché lo spavento provato una volta tanto dagli aguzzini è stato tanto e lo Stato italiano ha fatto una brutta figura a livello internazionale. Intanto i detenuti sono sballati in ogni dove, si sa che da Modena i rivoltosi sono partiti mezzi nudi e gonfi di colpi e le famiglie ancora attendono preoccupate un contatto diretto con i propri cari.

Il rapporto di forza per pochi giorni si è capovolto, i detenuti hanno trovato la forza di unirsi, non tutti, va bene ma questo poco importa, per far uscire la loro voce come da tanti anni non si vedeva in questo paese, i media hanno già messo nel cantuccio le notizie che in realtà si susseguono tramite i familiari delle persone recluse. Non è finita qui, si capisce bene, c’è chi invoca più carceri razionali che non si sa cosa voglia dire, chi chiede l’esercito fuori dalle galere, chi chiede di blindare i prigionieri nelle celle, e tutto questo non fermerà né il dolore né la rabbia di uomini e donne recluse perché è la stessa struttura che alimenta lo scoppio, spesso imprevisto, di rivolte come queste. Troppe cose sono state sopportate in questi anni e le ulteriori restrizioni hanno tolto opacità al malessere diffuso in ogni galera e noi sappiamo che, anche chi non ha partecipato alle rivolte in cuor suo ha sorriso, perché non c’è gioia più bella per un galeotto che quella di sapere che un carcere è stato chiuso tramite una rivolta e che qualcuno sia fuggito, perché sa bene cosa voglia dire stare in una maledetta cella. E gli sfruttati che oggi subiscono passivamente questo periodo di assenza totale di libertà, di totale asservimento allo Stato e ai tecnici, in futuro si ricorderanno chi all’inizio aveva lottato. Gli sfruttati tutti  pagheranno quello che lo Stato sta cercando di placare con vari decreti, manovre economici e non solo. Siamo solo all’inizio di una nuova e lunga lotta da fare e da prendere di petto.

A noi fuori spetta dar voce e solidarietà a queste lotte facendo comprendere agli sfruttati che il loro senso non è per nulla irrazionale. E c’è una parola che di solito viene usata con parsimonia ma che alla luce dei fatti successi richiede di essere innalzata sul pennone delle future lotte contro il carcere, la parola è vendetta. Il silenzio su quegli uomini assassinati dal sistema carcere è diventato assordante. Meritano di essere ricordati oggi e in futuro per far si che tutto quello che sta accadendo abbia un significato profondo.

16.03.2020, Trieste


Appello ai cittadini per evitare il CONTAGIO

https://roundrobin.info/wp-content/uploads/2020/03/vola.jpgSe vedete un venditore ambulante per strada, non chiamate il numero indicato dal governo per segnalarlo. Andate a comprargli qualcosa. Se notate che gli manca una maschera, non rimproveratelo, vedete se potete procurargliene una.

Non fare il poliziotto.

Se sentite che il vostro vicino ha dei sintomi, non guardate fuori dalla finestra per vedere se lo beccate che esce a fare la spesa. Chiedetegli se ha bisogno di qualcosa.

Non fare il poliziotto.

Se vedete gente per strada che cammina nel vostro quartiere, cercate di non sospettare il peggio, non chiamate il 112. Forse dovevano andare a lavorare. Non tutti hanno il privilegio di chiudersi in casa con il frigorifero pieno.

Non fare il poliziotto.

Se dovete uscire a fare la spesa, non guardate male chi avete intorno per paura di infettarvi. Salutate. Fate conversazione. Non è il vostro nemico.

Non fare il poliziotto.

Se incontri qualcuno che vive per strada, non attraversare l’altro lato della strada per paura. Se potete, uscite di casa con del cibo, una maschera in più, un po’ d’acqua in una tanica.

Non fare il poliziotto.

EVITIAMO LA DIFFUSIONE DEL POLIZIAVIRUS. È un virus che non andrà più via.


Cosenza – “Tutto va estremamente bene!”

La parola d’ordine di questi giorni è: “regole”.
Ad ogni cittadino modello è chiesto un grande sacrificio: ubbidire incondizionatamente ad una legge.
Ma questa legge, o meglio questo insieme di decreti che si susseguono vorticosamente, in modo contraddittorio e confusionario, ha come teatro una società che ha perso in pochi giorni le “sue certezze”.
Un nuovo virus è apparso come figlio del capitalismo, della pressione umana sulla natura, come prodotto dello sfruttamento.

Di fronte a tale virus sconosciuto la salvezza risiede nell’ubbidire alle leggi, non tanto per sviluppare l’immunità ma per indirizzare il gregge; poi, se queste leggi impongono o permettono comportamenti insensati, va bene lo stesso. In simili frangenti, cosa è più utile: riempire la testa di leggi; bombardare  con la propaganda del #iorestoacasa;  cantare inni dai balconi; militarizzare strade e quartieri, oppure far si che la gente comprenda quella che è la situazione reale?
Se la legge permette di fare una sciocchezza enorme, chi è abituato a ubbidire e basta, non farà altro che aderire alle nefandezze della legge.
Per questo motivo il bene più grande da coltivare in noi è la ragione, non l’ubbidienza, né il cosiddetto “bene comune”.

Ci sono tanti modi per legare l’individuo all’ubbidienza, alcuni molto evidenti, altri meno.
Quelli più subdoli e meno riconoscibili si fondano sulla volontà collettiva e  sul senso di comunità.
Il più delle volte tali collettività e comunità altro non sono che il prodotto funzionale, lo strumento di rigenerazione delle gerarchie e delle catene di comando: il terreno fertile, insomma, in cui attecchiscono più facilmente le radici della sorveglianza.
Ebbene, la prospettiva di avere idee condivise e sottoscritte, attraverso una limitazione quasi totale delle responsabilità individuali, è diventata nel tempo la prassi istituzionale più chiara e semplice per l’imposizione di ogni gerarchia, di ogni dominio, di ogni sfruttamento.
Ma quali “certezze” sarebbero dunque intaccate dal DPCM del governo?
E a quale “normalità” si agogna di ritornare al più presto?
La legge, oggi, dice che in tanti devono recarsi al lavoro; governo e padroni stringono accordi con  le parti sociali  e si ignorano gli operai che hanno organizzato scioperi spontanei.
Lo dice la legge: pattugliati in casa e, nello stesso tempo, a lavorare in fabbrica. Bisogna stare in casa, ma bisogna essere presenti sul posto di lavoro e in fabbrica.
Una dimensione che ricalca perfettamente lo slogan “distanti, ma vicini”, ovvero: da soli nei rapporti di forza contro gli strumenti dello sfruttamento; comunità nell’agire in modo responsabile alle ordinanze. Non è questo uno degli obiettivi più agognati dal modello economico vigente, sia esso incarnato dallo stato, sia esso incarnato da creativi imprenditori?

Intanto, in tutta questa situazione si è spinti alla delazione, si denunciano i vicini di casa usciti fuori , magari a buttare la spazzatura, si denuncia chiunque. Giornali e affini, come sempre, ma forse oggi con più foga, sono alla ricerca della notizia sensazionale e quindi pronti a fungere da sbirri e a denunciare. Politici e aspiranti tali, vogliono trarre profitto e visibilità con opere di sciacallaggio vero e proprio. Alcuni ministri cercano di conquistare il palcoscenico comunicando in diretta le scelte del governo relative al loro settore, altri politicanti dicono tutto e il contrario di tutto pur di stare sulla cresta dell’onda parlando dagli schermi di TV locali, nazionali, internazionali. C’è chi invoca elezioni e chi dice in diretta di essere ammalato.
Dove è l’eccezionalità di tutto questo? Non era la prassi anche fino a pochi giorni fa?
Approfittando delle suggestioni create, numerose aziende promuovono sul mercato le loro app, i loro droni e la loro tecnologia per aiutare governo e sbirri e controllare gli spostamenti delle persone. Pronte insomma ad assicurasi una via privilegiata nella costruzione delle nuove infrastrutture della rete digitale. Nulla di nuovo per un modello economico che da tempo sta cercando di imporre i suoi nuovi standard ed i suoi nuovi obiettivi. Il rinnovamento del capitalismo ha bisogno di mettere in quarantena le sue vecchie forme di produzione industriale e di sfruttamento delle energie. Il nuovo assemblaggio strutturale sostenibile e condiviso è già in atto. Fatto proprio e propagandato dalla associazioni più disparate in flashmob e manifestazioni “pacificate”. Resta solo da rendere i sudditi consapevoli e disposti ad accettarne i parametri comportamentali senza intoppi eccessivi.

Ad ogni modo, riteniamo importante soffermare la nostra analisi su un ramo strutturale del capitalismo: l’apparato tecnoscientifico.
“Governare significa sfruttare”, ma l’esigenza odierna del capitalismo di governare e reprimere in modo produttivo ed illimitato, presuppone la costruzione di un sistema scientifico capace di aggiornare e modificare continuamente la scelte da imporre. Inoltre, tali scelte devono essere applicate  velocemente, per far questo c’è bisogno di comunità e territori capaci di introitare al meglio le esigenze dell’economia.
Una lettura superficiale di ciò che accade intorno a noi in  questi giorni, potrebbe facilmente indurci a pescare in un universo letterario e filosofico, già più volte evocato e scarsamente ritornato utile ai fini di un’analisi tesa al contrattacco.
A cosa è funzionale il continuo accompagnamento della sorveglianza nelle nostre vite?
Può una telecamera o un drone, impedire una qualsivoglia azione volontaria?
Assolutamente no! Può solo, in alcuni casi, dissuaderla o allontanarla altrove.
Eppure l’arma della sorveglianza è nello stesso tempo spuntata e a doppio taglio.
I continui cambiamenti di contesto economico e decisionale devono prevedere o influenzare i comportamenti degli individui. Tuttavia, il livello di controllo totale non agisce sull’interiorità, ma sulla cosiddetta collettività. L’obiettivo del nemico è, dunque, modulare l’ambiente affinché risponda in un determinato modo: un ambiente che funzioni come sensore, come sonda, come polizia.
Quando l’ambiente diviene un sensore non esiste più un limite a ciò che può essere elaborato, raccolto, classificato. Nel modello disciplinare di controllo industriale, la sorveglianza si concentrava sul luogo di lavoro e sulle prigioni. Nell’era digitale l’interattività di rete annulla le differenze tra i processi di monitoraggio: la raccolta dei dati arriva a permeare una crescente gamma di spazi e attività. E alla fine il punto d’arrivo di una decisione guidata è l’automazione del giudizio. L’individuo limita la quantità di informazioni che può essere assorbita o elaborata, invece le macchine promuovono scenari di “neutralità” e “oggettività” che permettono di poter trascendere le parzialità di giudizio. Lo scopo dell’automazione è, infatti, quello di sviluppare sistemi che sostituiscano le decisioni individuali e gli istinti vitali.

Il fine non è quello di reprimere semplicemente, attraverso le forze dell’ordine, i comportamenti antisociali. Oggi si sta trasferendo all’interno delle masse l’occhio del controllo, verso se stessi e verso gli altri. Quante volte, infatti,  prima ancora della diffusione del mortifero virus, isterici cittadini modello hanno prodotto filmati per denunciare le condotte ritenute moleste?
Per i Decreti Legge non è importante sapere perché non vi sono abbastanza strutture o respiratori per gli ammalati, questi ultimi che stanno vivendo sulla loro pelle, le difficoltà di questi giorni, da nord a sud, lo sanno bene.  Invece  è utile disciplinare al meglio le persone davanti ad un evidente “errore” del sistema operativo. Con sempre maggiore frequenza amministratori, cittadini invocano la presenza dell’esercito ma come mai, invece di fare appello a misure concrete in favore della sanità si chiede l’esercito? É presto detto: la cosa importante è che non si formino assembramenti, che non ci sia gente capace di protestare una volta che ci si sarà resi conto che in realtà, ci vorrebbero chiudere in casa ad attendere il morbo, senza cure, mentre si canta dai balconi. Cosa accadrebbe se tutti  testassero con mano la mancanza di cure adeguate, che succederebbe se arrivati in pronto soccorso venti , trenta persone si vedessero, tutte insieme, rifiutate le cure perché, semplicemente, non ci sono i soldi? Cosa succederebbe se alle continue rassicurazioni seguisse la triste realtà di non potersi garantire un sostentamento quotidiano adeguato?

E’ prassi, davanti ad ogni passo in avanti della sorveglianza nelle nostre vite, alimentare  un panorama visionario orwelliano per criticarne gli effetti; è consuetudine davanti all’aumento della stretta della catena dello sfruttamento, dimenticarne i responsabili: il capitale, lo stato, le istituzioni e i suoi rappresentati. E’ importante, dunque, non sminuire la concretezza dei fatti e non edulcorare la realtà.
Più i governi ricercano infallibilità e completezza delle informazioni che acquisiscono, delegando ai sistemi tecno-scientifici la ricerca di un numero di dati sempre maggiore, più incorrono in errori di valutazione, poiché il concetto stesso di “completezza dei dati” è limitante, superficiale.
Il pericolo posto dalla sorveglianza automatizzata, non è che sarà assoluta, ma che le persone possano agire come se lo fosse.
Tuttavia è importante tenere presente che la fallace neutralità delle macchine condiziona quotidianamente decisioni governative, valutazioni economiche e quant’altro. Eppure, l’ampio mercato che l’apparato industriale della sicurezza muove, è evidente. Esistono, dunque, in merito alla governance della sicurezza, un ambito economico strategico ed uno strettamente sociale che si auto alimentano e spartiscono equamente gli utili ritagliandosi ruoli determinanti nella gestione e nell’erogazione dei servizi. La sperimentazione diffusa che il capitale usa come modo per rigenerarsi ha continuamente bisogno di figure che restituiscano senso ai tentativi di riavvio della macchina ma ha anche bisogno di un ambiente addomesticato che compie scelte “sane”, “virtuose”, “comuni”, prevedibili.
Per cui, se viene chiesto di lavorare senza retribuzione è un dovere del lavoratore nei confronti dell’economia statale; se viene chiesto di lavorare in ambienti o in condizioni insalubri è un dovere nei confronti della nazione o della comunità di cui si fa parte. Anche da questo punto di vista, però, ciò che il DPCM del governo impone non è nulla di nuovo o di salvifico. Ma è la conferma dell’assassinio quotidiano che viene, da sempre, somministrato dai padroni ai lavoratori.

Probabilmente questo nuovo senso del dovere riesce a far dimenticare che ogni giorno ci confrontiamo con la morte: recandoci al lavoro; respirando aria infetta; assassinati da zelanti tutori dell’ordine.
Tutto ciò ha dei responsabili! Li conosciamo bene! E non dobbiamo dimenticare come si fa a riconoscerli: quando ci dicono che bisogna stare uniti per il bene della nazione e fare sacrifici; quando ci dicono che l’imprenditoria è l’unica salvezza dalla povertà; che la democrazia è il male minore; che un prigioniero morto in galera, si è suicidato o è morto di overdose.
Non dimentichiamo chi sono anche quando chiedono uno sforzo a tutti per arginare un’emergenza come quella in corso.
Sono gli stessi infami, gli stessi assassini di sempre.
Non dobbiamo disconoscere responsabilità specifiche attraverso la condivisione della colpa; un’arma che da mesi i governi europei e i loro servi sinistrati, stanno cercando di istillare nelle coscienze, attraverso proteste addomesticate.
Politici, padroni, sbirri, magistrati sono il virus quotidiano della nostra vita.
Il vecchio detto: “Se non hai nulla da nascondere. Non hai nulla da temere dalla sorveglianza”, rievoca implicitamente i consueti privilegi di classe.
Chi non ha nulla da temere dal sistema economico che condiziona le nostre vite è il padrone, colui che ha introitato i modi di vivere funzionali al capitalismo e li riproduce.
Non abbiamo bisogno di contare un numero maggiore di passi in un recinto per sentirci liberi.
Siamo liberi poiché non riconosciamo il diritto e la legge, sia che provengano da un’assemblea di delegati, sia che provengano da un’elaborazione di un algoritmo.
La paura con cui cercano di infettare le coscienze deve rivoltarglisi contro e chi fa sciacallaggio politico di questa situazione, cercando di promuoversi a benefattore o controllore, è complice!
Nessun ordine, nessun comunicato consolatorio e distensivo di ciò che produce il sistema economico, va salvaguardato o amplificato.
Siamo animati da una  fortissima vicinanza a tutti coloro i quali stanno vivendo momenti bui, in questi giorni ed è proprio per questo che non aspettiamo silenti e indifesi, alcun ritorno alla normalità, quella stessa normalità che già combattevamo e che, sostanzialmente, non ha nulla di diverso da quella odierna.

In guerra contro il capitale ieri ed oggi!

Anarchici a Cosenza


Scatenarsi nella rovina

Perdere
ma perdere veramente
per lasciar posto alla scoperta
Guillaume Apollinaire

Sopravvivere nella società contemporanea significa esistere al cospetto dell’emergenza. La minaccia
costituita da ciò che l’occhio umano non può assolutamente scrutare pesa quotidianamente sulla
propria esistenza. Fenomeni al di fuori del proprio spazio di intervento minacciano costantemente la
propria vita, le proprie relazioni e l’ambiente in cui si vive. Un nemico invisibile è approdato ormai
da un mese in Italia divenendo la principale preoccupazione dello stato come dei suoi abitanti.
Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto sempre la solita litania. Proclami in televisione, alla radio,
nei luoghi pubblici (ovunque vi sia uno schermo, una bacheca, un altoparlante) diffondono gli stessi
consigli; vicini di casa, colleghi di lavoro, sconosciuti nelle strade… quasi tutti ripetono nei loro
discorsi le stesse parole chiave: controllo, sicurezza, sacrificio, obbedienza.

Quando il dominio va incontro ad un periodo di instabilità, causato ad esempio dalla possibile
diffusione di un epidemia, non può che cogliere la palla al balzo per rinforzare il proprio potere.
I disastri prodotti dall’espansione del sistema tecnico, con il suo rapporto di sopraffazione verso
quello che rimane di naturale intorno a noi, con i suoi vincoli sociali ed esistenziali, con la sua
connessione globale permanente, si ripresentano alla porta del suo avvenire. Un terremoto, un
alluvione, un incendio divengono fenomeni catastrofici solo dal momento in cui l’ambiente naturale
è stato sostituito dall’ambiente tecnico. Un terremoto non crea molti danni dove il territorio non è
sovrastato da palazzi di cemento, un’alluvione non devasterebbe intere zone abitate se prima le
acque non venissero incanalate funzionalmente all’interno di argini, un incendio non devasterebbe
intere foreste se le temperature non fossero in costante crescita a causa dell’effetto serra. Allo stesso modo un virus non sarebbe così facilmente una minaccia globale se la densità di popolazione e i mezzi di trasporto non rendessero gli spostamenti da una parte all’altra del mondo una questione di ore. Il carattere di questi problemi è tale da non poter essere risolti dal sistema stesso, in quanto è
possibile solo una soluzione che metta in discussione le sue stesse fondamenta. Ciò che gli resta da
fare è sperimentare il miglior metodo di compensazione, cioè quello che garantisca al meglio la sua
stabilità.

Il primo passo è quello di allontanare da sé una qualsiasi parvenza di responsabilità: le devastazioni
prodotte da una calamità naturale sono conseguenze del carattere imprevedibile della natura, l’esplosione di un reattore nucleare è un rarissimo incidente dovuto ad un errore umano. Una volta
stabilite le procedure per gestire la catastrofe a proprio vantaggio, il passo successivo è quello di
incolpare chiunque non le rispetti. Lo stato tecnico si erge a unico garante della situazione
trasferendo le proprie responsabilità a chiunque non rispetti il comportamento da esso imposto.
A Fukushima nelle zone altamente contaminate da radiazioni, per lo più entro i 30 chilometri di
distanza dalla centrale, gli abitanti venivano riforniti di tutto il materiale necessario ad analizzare il
livello di radioattività del terreno: contatori Gaiver, guanti, maschere e così via. Quando una
persona manifestava problemi di salute causati dall’esposizione alle radiazioni lo stato e la Tepco
(azienda del settore energetico nucleare giapponese) potevano tranquillamente pulirsene le mani
sostenendo che se quella persona aveva una malattia, ciò fosse dovuto ad una scorretta esecuzione
della procedura, ad un comportamento irresponsabile. Se migliaia di bambini sono morti di tumore
la responsabilità fu dell’industria nucleare che riversò tonnellate di elementi radioattivi nell’aria e
nell’acqua, o dei loro genitori che gli hanno permesso di giocare per terra nel parco?
Oggi in Italia a milioni di persone viene intimato di rinchiudersi in casa, uscire solo per necessità,
evitare di incontrarsi con altre persone o averci qualsiasi tipo di contatto fisico. Sugli schermi viene
mostrato come lavarsi le mani o indossare una mascherina. Chi decide di non rispettare queste
direttive, chi non accetta di privarsi della propria libertà di movimento e cadere ostaggio della
paranoia, diviene di conseguenza un propagatore del contagio, capro espiatorio, nemico pubblico
per eccellenza. A chi meglio scaricare il peso della responsabilità di non essere in grado di garantire
la salute delle persone in un mondo contaminato, se non a coloro che si oppongono alla propria
reclusione all’interno dei meccanismi del potere.

Ciò che contraddistingue la radioattività tanto quanto l’epidemia è l’invisibilità e quindi imprevedibilità della sua diffusione e delle sue conseguenze. L’impossibilità di avere la situazione sotto controllo, spinge il cittadino ad affidarsi a chi sia in grado di propugnargli una soluzione immediata, quindi a porsi completamente nelle mani di tecnici, scienziati, burocrati: anime pie del totalitarismo imperante. A quel punto la sopravvivenza delle persone diventa interamente costituita da una serie di procedure da seguire, di controlli a cui sottostare, di pressioni psicologiche e sociali a cui essere costantemente sottoposti. Ogni scelta, ogni gesto devono essere considerati e calibrati sulla base di istruzioni, le proprie priorità vanno tradotte nelle categorie di priorità del potere. Se guardare un tramonto può essere considerato rischioso e superfluo, mettersi in coda davanti a un supermercato diventa la priorità giornaliera.

Se a Fukushima le persone devono cronometrare il tempo che passano fuori dalla propria casa per poi correre a farsi una doccia, a Milano ognuno deve stare almeno ad un metro di distanza da
qualsiasi altra persona ed entrare nei supermercati in fila uno alla volta muniti di guanti e
mascherina. La cosa drammatica è che niente di tutto ciò sarà in grado di controllare gli effetti delle
radiazioni, né tanto meno bloccare la diffusione di un contagio.

Siamo davanti al possibile epicentro della catastrofe. Essa è in atto da molto tempo. I richiami all’ordine vogliono far proseguire la catastrofe perché solo in essa prende forma un’oppressione
giustificata e apparentemente irreversibile. Allora la decisione vitale sta in questa scelta: incatenarsi
nelle proprie dimore della rovina o scatenare le cattive passioni per danzare sulle macerie di un
mondo infettato da potere e servitù?

quattro occhi chiari nella catastrofe


Statovirus e altre amenità (21/03/2020)

La situazione politica in Italia è grave ma non è seria” (Ennio Flaiano)

Sta andando tutto male, sta andando tutto male” (Poeta tranese)

Quello che dico potrebbe essere un po’ razzista, e mi toccherà scusarmi, ma non pensate che il coronavirus sia un po’ una scusa? Gli italiani, sappiamo come sono, per loro ogni scusa è buona per chiudere tutto, interrompere il lavoro e fare una lunga siesta” (Christian Jessen)

Queste sono nostre riflessioni che spaziano dal faceto al serio. Altri hanno già scritto cose migliori, ma anche più noiose. Da più parti non si fa che pensare che stiamo vivendo una sorta di situazione distopica, la fine del mondo, l’apocalisse, etc. Tutti i riferimenti a 1984, Brave new world, alla cinematografia sugli zombi e a chi più ne ha più ne metta. Questi non si ricordano di un aspetto molto importante, ovvero che l’Italia è il paese della commedia dell’arte.

Ci spiegheremo meglio. Spesso sul giornale anarchico Vetriolo si è paragonata l’organizzazione statale ad un organismo vivente. Detto ciò, cosa sta succedendo in Italia? Nell’ultimo numero di questo giornale, è stato scritto che lo Stato italiano è per certi versi all’avanguardia, come se fosse pioniere nello sperimentare cose che altrove succederanno solo in futuro. Il capitalismo italiano è profondamente malato e nel mondo gira questo virus che ha scatenato una pandemia, come successo per la peste nera attorno al 1347.Diremo una banalità, ma la malattia colpisce di più un corpo già malato. Allora il governo italiano fa quello che faremmo noi per non andare al lavoro quando il giorno prima ci siamo sbronzati e siamo tornati a casa alle 5 del mattino, ovvero, chiamiamo il datore di lavoro e il medico curante per il certificato e ci mettiamo in malattia perché abbiamo mal di testa. In pratica, al causa del post-sbornia, saltiamo la giornata lavorativa perchè non ne abbiamo voglia, ma almeno ci danno lo stipendio e restiamo a casa. Insomma,due piccioni con una fava. Alla stessa maniera, il governo Conte chiama l’Europa e le dice: “Scusate, ma non ci sentiamo tanto bene oggi. Abbiamo l’influenza. Dobbiamo metterci in malattia per un mese, ovvero in quarantena, e nel frattempo però dobbiamo bloccare tutto. Quindi ci dovete i soldi dello stipendio e non ci dovete rompere le scatole per lo sforamento deficit-pil, debito pubblico, etc”.

L’OMS emette il certificato medico, ma comunque la Lagarde non ci casca e nessuno nella UE ci manda le mascherine. Essendo il corpo dell’Italia ammalato, cosa decide di fare lo Stato? Cerca di rafforzare i suoi anticorpi e il suo sistema immunitario. Non a caso, vi ricordate la serie animata Siamo fatti così? Bene, in questa serie gli anticorpi erano rappresentati da sbirri. Allora, il sistema immunitario dello Stato, oltre a voler debellare il coronavirus, coglie l’occasione per tentare di arginare o eliminare tutti gli altri virus, batteri e parassiti (1) dal proprio corpo.

Alla luce di ciò, pensiamo di non vivere un film distopico postapocalittico, bensì la più classica delle commedie all’italiana. In altre parole, questa è Tototruffa 62, altro che Zombi di G. Romero! Oddio, non esattamente Tototruffa, anzi, piuttosto è una sua versione degenerata, con attori di second’ordine. Al posto di Antonio de Curtis, abbiamo un avvocaticchio azzeccagarbugli devoto a Padre Pio, ovvero un altro truffatore di simpatie fasciste. Insomma, in fin dei conti, questa non è nemmeno commedia dell’arte, è cinepanettone andato a male, e il fatto che uno dei focolai maggiori sia in Lombardia, lo conferma.

Poi che dire… Ne sono passate di pandemie nella storia, passerà anche questa. La questione è che lo Stato agisce/reagisce contro quello che lo circonda e lo attacca. Le misure e i “protocolli” che mette in atto sono di sua iniziativa. Prima li studia e poi li applica. Ma non è infallibile, tanto in caso di pandemie, quanto in caso di terremoti, guerre (dichiarate o meno), stati di emergenza per conflitti sociali, insurrezioni, etc. Questi eventi, però, non sono per niente uguali o simili tra di loro. E non è solo un virus o un meteorite a destabilizzare il sistema, come pensano gli anarco apocalittici/misantropx (come è affermato in un testo circolato su Roundrobin dal titolo
“Insurrezione ai tempi del coronavirus”), soprattutto perchè dopo questi eventi è più facile un recupero dello Stato e non solo (soccorsi, aiuti, filantropia dei ricchi, etc). Pensare questo, poi, è anche un’offesa alle gesta di tutti i rivoluzionari della storia e di oggi. Perchè anche “un gruppuscolo di rivoluzionari” ha sempre partecipato a rivolte e insurrezioni. C’è chi è morto e chi è in galera. In tanti, ma anche in pochi, gli anarchici e i rivoluzionari hanno partecipato alla destabilizzazione della produzione, del sistema statale, delle istituzioni. Ci hanno sempre provato, almeno. Durruti era in un
gruppo di affinità, Los Solidarios. Rivolte, espropri, azioni, partecipando infine a una rivoluzione. E tanti altri anarchici nella storia erano donne e uomini in carne e ossa. Non virus o meteoriti, né alieni che invasero la terra o tsunami. Forse terremoti… ma terremoti rivoluzionari: gli anarchici negli Stati Uniti nei primi anni del ‘900, in Russia e dintorni prima durante e dopo la Rivoluzione Russa, sfidando gli autoritari. Le compagne e i compagni che combattono oggi in tutto il mondo e partecipano alle rivolte sociali e alle insurrezioni, etc.

Una cosciente insurrezione e rivoluzione, dopo anche una “incosciente” rivolta spontanea, è ben altra gatta da pelare per gli Stati e la borghesia. Il recupero dell’insurrezione e della rivoluzione (o il recupero dall’insurrezione e dalla rivoluzione) è ben altra questione.

L’insurrezione non viene mediata. Se ci riesce, lo Stato la reprime. E lì ce la giochiamo con tutte le carte.

(1). Non a caso, il fascismo storico, e attualmente le destre in generale, come denominano i sovversivi in maniera dispregiativa?

P. S.: Come giustamente ci insegna un nostro amico filosofo norcino, “il coronavirus è lo spirito del tempo: l’evento casuale che permetta alla storia di svilupparsi”, ovvero, porta a compimento processi già in atto prima, come la crisi della globalizzazione e il ritorno del protagonismo dello Stato. In poche parole è un fenomeno che rafforza questa tendenza.

P. S. 2: Secondo il min.int, (che, in maniera misteriosa ed inquietante, è quasi l’anagramma di Minniti), dall’11 al 17 marzo son state emesse 44mila denunce. Lo Stato in pochi giorni non contagia, ma controlla. La multa corrisponde ad un massimo di 206 euro che x 44mila son circa 9 milioni di euro. Ovviamente, non tutti pagheranno, ma intanto, in una sola settimana, sono state tassate, indirettamente, quasi 50mila persone. Oltre ad aver controllato più di un milione di persone.
Come si dice al sud, facciamo i Conti in tasca allo Stato! Tanto ora c’e’ Giuseppi…


Coronavirus: il blackout della globalizzazione (22/03/2020)

L’emergenza legata alla pandemia di Covid-19 ha aperto una nuova fase oscura della storia del pianeta. L’Italia è stata, in Occidente, la prima a esserne colpita e il nostro Stato si è trovato nella condizione di sperimentare tentativi e soluzioni alle nuove contraddizioni poste in essere da questa crisi mondiale. Queste soluzioni, con qualche apparente eccezione legata alle politiche di welfare, possono essere sintetizzate con una sola parola: repressione. Ne è esempio drammatico la risposta, violentissima, alle rivolte nelle carceri.

La progressione delle misure restrittive, piombate sulla vita di tutti noi, col consenso dei più, è stata imposta da una dittatura del terrore che ci coinvolge tutti. I morti iniziano a pesare. Pesano sullo Stato, pesano sui cittadini, pesano anche su di noi. Di fronte a questa tragedia, la risposta dello Stato è stata netta: la tenebra come scelta di confronto. I carcerati sono spaventati dalla possibile diffusione del virus nelle loro celle? Repressione violenta con la totale copertura politica e mediatica. I ricercatori, questi moderni sciamani a cui affidiamo il segreto totemico delle nostre vite, non riescono a fermare il contagio? La colpa è degli individui, che non vogliono restare a casa. Un esempio di questa modalità (essa sì malata) di affrontare l’emergenza è la schizofrenia politica per cui chi va al parco è un pericoloso untore da arrestare, nonostante i luoghi produttivi debbano rimanere aperti, perché le leggi del profitto non possono fermarsi. Si chiudono i parchi e le spiagge, si pattugliano i boschi, ma si lasciano aperte le cattedrali dell’economia, senza un solo sedicente esperto che ci dia i numeri di quanti sono quelli che si sono infettati al parco, al mare, in montagna e quanti in metro, in autobus o in mensa.

Un giorno, i padroni e i loro politici dovranno pagare per tutto questo. L’Evento Coronavirus non è, secondo noi, un “cigno nero”. Non è un fenomeno imprevisto che sconvolge tutte le nostre convinzioni pregresse. E’ un Evento, certo imprevisto, ma che verifica la gran parte delle ipotesi che alcuni di noi da alcuni anni vanno elaborando. In primo luogo, il Coronavirus segna definitivamente quella che è stata chiamata “crisi della globalizzazione”. Chiusura delle frontiere, sospensione della gran parte dei voli, quarantena per le navi come si usava al tempo della Serenissima, ormeggiate e sorvegliate a Chioggia. Ma anche la chiusura di interi distretti industriali, il crollo dei mercati. Il mito di un super-Stato europeo che si dimostra non all’altezza, un fantoccio impotente di fronte allo scacco dell’Europa. Dunque, tutto questo ha imposto il ritorno dello Stato nella sua centralità, smentendo le tesi di chi riteneva il potere come qualcosa di fluido, di diffuso, di fantasmatico, immaginando una progressiva perdita di sovranità nei confronti di strutture sovranazionali. In piena emergenza, lo Stato si è dimostrato, al contrario, come il soggetto della dominazione reale. E’ stato il Consiglio dei ministri a dettare i decreti sempre più restrittivi. Sono stati i governi, in ordine sparso, senza alcun coordinamento a disporre le misure da prendere. Quando il gioco si fa duro, la linea di comando del dominio è ben precisa e tutt’altro che fluida: il governo, la polizia, i militari, i droni, le denunce.

Dulcis in fundo tornano fondamentali coloro che producono, smentendo, ancora una volta, chi si è esposto a favore di una facile liquidazione del mondo del lavoro. In un momento nel quale tutta l’economia terziaria è ferma, la continuità produttiva, lo scheletro di tutta l’impalcatura sociale appare nelle mani degli sfruttati. Questo fornisce loro un potenziale rapporto di forza, insperato fino a poche settimane fa. Se gli individui che mandano avanti la produzione sospendessero, ora, la loro disponibilità a lasciarsi sfruttare, l’intera società si spegnerebbe, sarebbe il blackout. I lavoratori non sono scomparsi, come alcuni pensavano, ma sono mutati: gli sono spuntate le branchie. Non sono più solo terrestri, ma anche anfibi. Anfibi, cioè sospesi tra le lande di una terra in rovina e il salpare verso un Mondo Nuovo. Che si diano alla pirateria! Che li seguano anche gli sfruttatori sulle rotte dei mari, nel loro caso spinti dalla vergogna, il motivo principale che spingeva alla pirateria i benestanti di un tempo. E sarà li, nella tenebra, che non ci saranno più differenze sociali, classi di appartenenza, colore della pelle, oppressioni sessuali. Il bottino per cui lotteremo sarà la sopravvivenza in una nuova vita comunitaria.

Patricia de la Ville e Ottone Degli Ulivi


Passeggiando sull’orlo… un tuffo nel nulla

I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati.
(Albert Camus, La peste)

Caos… o no?

L’arrivo dell’epidemia in Italia è il punto di partenza di uno stravolgimento non ancora conosciuto. L’economia sta crollando. Centinaia di miliardi di euro sono spariti. Gli esercizi commerciali chiudono. Uffici pubblici, scuole, palestre… tutto è bloccato. Solo i supermercati e i negozi di prima necessità restano aperti e vengono giornalmente svuotati. Le persone per lo più escono di casa solo per fare la spesa. Spaventate, non parlano tra loro, ognuno cerca di fare il più in fretta possibile. Sembra quasi uno scenario pre-apocalittico, qualcuno potrebbe pensare che questo sia il preludio di un periodo di caos. Eppure la situazione odierna è tutto meno che caotica: milioni di persone rinunciano a uscire di casa in nome di una responsabilità collettiva farcita di patriottismo, lo Stato ordina e i cittadini obbediscono, chi per paura, chi per evitare ritorsioni; le relazioni per lo più sono mediate da supporti informatici e il contatto umano è divenuto oltraggio alla salute collettiva. L’economia si orienta sulle piattaforme via web, grosse multinazionali gestiscono interamente il traffico di merce e catene di supermercati diventano il principale punto di riferimento per soddisfare i bisogni. L’istruzione avviene tramite connessione a distanza, di certo ora le aule saranno silenziose… Cosa ci sarebbe di caotico in tutto ciò?
Certo, la situazione negli ospedali è tutto meno che sotto controllo, ma perché dovrebbe poi così stupire, lo Stato si è forse mai preoccupato della salute delle persone? La malattia più che una minaccia è un’opportunità di profitto o controllo.

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Eppure sappiamo anche che nel loro ordine, appena sotto la superficie, cova il disordine, si nasconde la ribellione, la sensazione di vita negata, più o meno raggiungibile e comprensibile dalle singole coscienze. Esiste un potenziale inespresso in termini di desiderio. Questo potenziale più viene bandito e negato più acquista pericolosità, perché potrebbe prendere fuoco in qualsiasi momento. O forse no, forse già tutto è perduto, solo noi (noi chi?) proviamo ancora passioni e desideri?
Eppure se nessuna delle due possibilità cambia la scelta individuale di continuare l’attacco al potere, cambia profondamente il modo in cui possiamo rifiutare l’idea dell’ineluttabile eterna riproduzione del presente stato di cose. Diamo forza, cercando di percepire la tensione soffocata, all’idea che un mondo altro sia possibile, e che questo non sia il migliore dei mondi, l’unico mondo possibile.

Alternativa o cogestione?

Come accade tuttavia in molti momenti storici in cui non è minata alla radice l’autorità del sistema sociale regnante, l’alternativa difficilmente riesce ad imboccare le strade dell’alterità, per ritrovarsi più spesso impantanata nella miseria della cogestione.
Cosa significa oggi aiutare a distribuire mascherine? Significherebbe o che viene concertata e coordinata la propria azione con la Protezione Civile ed il Comune oppure che è dietro l’angolo la repressione da parte di militari e poliziotti perché vengono violate le leggi ed i decreti che vietano di uscire di casa.
Questo sistema sociale ha creato un mondo dove vivono 7-8-9 miliardi di persone. Come diceva Huxley nel suo profetico romanzo “Il Mondo Nuovo”:

“La stabilità. Non c’è civiltà senza stabilità sociale. Non c’è stabilità sociale senza stabilità individuale.
La macchina gira, gira, e deve continuare a girare, sempre. E’ la morte se si arresterà. Un miliardo di persone formicolavano sulla terra. Le ruote cominciarono a girare. In centocinquant’anni ce ne furono due miliardi.
Fermate tutte le ruote. In centocinquanta settimane non ne rimane, ancora, che un miliardo; mille migliaia di migliaia di uomini e donne sono morti di fame. Le ruote devono girare regolarmente, ma non possono girare se non sono curate. Ci devono essere uomini per curarle, uomini costanti come le ruote sul loro asse, uomini sani di mente, uomini obbedienti, stabili nella loro soddisfazione. Gridando: ‘Bambino mio, madre mia, mio unico, unico amore’; gemendo: ‘Mio peccato, mio Dio terribile’; urlando per il dolore, rabbrividendo per la febbre, piangendo la vecchiaia e la povertà, come possono curare le ruote? E se non possono curare le ruote… Sarebbe arduo seppellire o bruciare i cadaveri di mille migliaia di migliaia di uomini e di donne.”

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Quali sono i nostri problemi e quali sono quelli del Dominio?
Dobbiamo forse risolvere il problema dell’inquinamento? Non ci iscriviamo a biologia, abbattiamo un traliccio dell’alta tensione per spegnere una fabbrica.
Dobbiamo forse risolvere il problema della povertà? Non fondiamo una banca etica, la rapiniamo e cerchiamo di distruggere il mondo del commercio ed anche quello della sua falsificazione “equosolidale”.
Dobbiamo forse risolvere il problema delle malattie? Non studiamo medicina, cerchiamo di abbattere questo sistema sociale. Perché l’azione rivoluzionaria non ristruttura la prigione, non la migliora. L’abbatte per creare il vuoto, per dare la possibilità alla vita di sbocciare.
L’alterità può infatti nascere solo dove non esiste il potere dello Stato, e soffoca se questi spazi in cui prova a germogliare non si allargano ma restano circoscritti a piccole sacche controllate.
Purtroppo i morti sono causati da questo mondo, dalle nostre scelte collettive di vita – anzi, di sopravvivenza. Non dalle nostre scelte individuali di lotta. Ed una rivoluzione è lastricata di sangue e di morti, perché questa è la condizione in cui questo sistema sociale ha messo l’umanità: non poter più esistere senza di esso. Come potrebbe esistere l’umanità senza la scienza del nucleare, dal momento in cui la prima centrale è stata accesa e la prima scoria prodotta? Il prezzo delle scelte di chi è vissuto prima di noi ricadrà sul futuro ancora per molti anni, ma non cominciare già da ora a pagare il debito di sofferenze non fa che aumentare le sofferenze complessive.

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Il freno d’emergenza è un pericolo.
Se non lo tiriamo, però, il Dominio continuerebbe ad approfondirsi, andando a cambiare ed a dominare anche materialmente le nostre esistenze. Per questo non è possibile accettare cogestione, né rinviare la conflittualità che dovrebbe essere permanente: perché il disastro è il loro e loro devono pagarlo. E deve finire.
Chi vuole un mondo di libertà non è responsabile dei massacri del Dominio, neppure di quelli che avverranno domani o dopo il suo crollo. Chiaramente non bisogna perdere di vista la conseguenza tra mezzi e fini, ma occorre anche saper guardare al mondo con un certo distacco.

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Tuttavia, è anche vero che il ritmo di questi giorni è forsennato, e la coscienza del disastro diventa sempre più lampante ai più. Che accadrà quando la paura lascerà il campo al desiderio di speranza o alla speranza del desiderio?
Un mondo inaspettato
E allora? Una situazione di questo tipo coglie impreparati.
Come amanti della libertà, aspiriamo a vedere le trame di questo regime d’emergenza sfaldarsi a causa di un’ingestibile focolaio di passioni. Eppure ci domandiamo anche come cambiano le possibilità di intervento quando tutta una serie di garanzie, soprattutto le più materiali, vengono negate o semplicemente diventano non più garantite dal sistema sociale e dal suo funzionamento. Come continuare ad avere rapporti e organizzarsi, per di più se si vive a grandi distanze? Come è possibile diffondere idee senza disperderle nel regno virtuale dell’opinione, se difficilmente è possibile comunicare al di fuori di uno schermo?
Per di più, se le comunicazioni e la memoria vengono affidate esclusivamente ai social network, che hanno il potere di eliminare e censurare tutto all’improvviso, come conservare il ricordo di ciò che accade, bombardati come siamo dalle notizie prodotte dall’eterno presente? Con quali mezzi è possibile farlo autonomamente quando stamperie e tipografie sono chiuse per decreto? E quali rischi comporta il tentativo di rompere questo macabro silenzio?

Guardando al passato

Uno sguardo al passato, in questo periodo, potrebbe essere un buon punto di partenza per cercare di orientarsi sulle scelte da compiere. Senza però distogliere la mente dal presente, che ci offre una prospettiva inedita ed unica.
Esperienze passate di individui e gruppi anarchici potrebbero illuminarci riguardo all’importanza del possesso di diverse capacità, conoscenze e mezzi che hanno permesso di dare del filo da torcere allo Stato e ai suoi mezzi repressivi.
Anche in tempi di guerra o dittatura militare, in cui le condizioni di precarietà erano ben più radicali di quelle attuali, c’è chi è riuscito a continuare a lottare, diffondendo idee di rivolta e mettendole in pratica. Ma quali sono questi fantomatici mezzi e quelle capacità di cui si parlava prima? Un esempio che può sembrare tanto banale quanto lampante è la possibilità di stampare autonomamente del materiale cartaceo in grandi quantità e in tempi brevi da poter diffondere.
Nel novecento era una pratica comune che chi redigesse un giornale avesse anche le conoscenze e i mezzi materiali a propria disposizione affinché fosse possibile stampare le copie da distribuire. In molte città erano diffuse tipografie clandestine dove era possibile per i compagni stampare i propri volantini, manifesti, opuscoletti, libri e così via. Così era ad esempio in molte città della Russia ai tempi del regima zarista e di quello bolscevico, o in Argentina sotto la dittatura di Uriburu, dove un Severino di Giovanni – da latitante – poteva passare in breve tempo dal rapinare banche a stampare libri ed opuscoli.
Altre possibilità sono relative alla conoscenza approfondita del territorio in cui si vive e del sapersi muovere in esso inosservati. Pensate a un Caracremada che per decenni è riuscito a compiere sabotaggi in territorio franchista, in compagnia o da solo, varcando i Pirenei ogni volta per tornare in Francia solo settimane più tardi. Se di certo le forme di controllo assumono sembianze diverse nella storia, riflettere sulle condizioni di chi le ha eluse in passato potrebbe essere propedeutico a sviluppare forme di evasione nel presente. Come si combina la conoscenza del territorio con la propensione contemporanea al nomadismo ed al continuo spostamento nello spazio? E se le attuali restrizioni imposte fossero di stimolo ad imparare a muoversi intelligentemente su un territorio, dovendo in qualche modo evitare di essere fermati?
Eppure è solo col tempo, e non nell’immediato, che è possibile far ciò. Ed ora che scenari ci si prospettano?

Guardando al domani

Semplificando, forse all’eccesso, ci si aprono solo due alternative. Ovviamente possiamo intervenire con la nostra azione, non siamo in balia degli eventi o in attesa che la Storia faccia il suo corso. La nostra volontà ha un peso ed un ruolo in ciò che avviene, tanto vicino a noi che in lontananza. La prima possibilità è che il Dominio riesca a trovare una propria nuova stabilità, normalizzando la situazione e continuando a riprodurre il suo mondo e le relazioni da lui prodotte. L’altra è che questo Dominio cominci a perdere pezzi, ad avvitarsi su se stesso in una sempre maggiore instabilità, crollare inesorabilmente.
I tempi potrebbero essere, per qualsiasi scenario, tanto rapidi quanto inaspettati.

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Nel primo caso occorrerebbe comprendere che cosa significa vivere in uno stato d’emergenza come questo e trovare il modo per non farsi in futuro bloccare nella propria azione da simili limitazioni esterne. C’è sempre una prossima volta.
Pensiamo a cosa accadrebbe se venissero in futuro oscurati e filtrati determinati siti. O se venissero disattivate le nostre SIM dei cellulari. Saremmo muti. Oggi più che mai, dato che non abbiamo nemmeno modo di stampare in quanto dipendiamo da aziende di stampa e copisterie e magari non abbiamo più nemmeno gli indirizzi delle persone con cui vorremmo comunicare. Pensiamo anche a tutti quegli elementi di conoscenze ed abilità che è necessario sviluppare nel tempo e non nell’emergenza. Oggi abbiamo ciò che abbiamo, i nostri limiti e la nostra ignoranza. O forse altri individui si sentono invece pronti? Ed un domani, come vogliamo sentirci? E cosa vorremmo saper fare?

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Nel secondo caso dovremmo essere in grado in primo luogo di sopravvivere e in secondo luogo di fare in modo che il Dominio non si ripresenti sotto altre spoglie. La città è facilmente isolabile e non è in grado di autosostenersi: necessita di rifornimenti che vengano portati dall’esterno per poter continuare ad esistere.
La città è fondamentalmente un luogo che potrebbe rivelarsi all’improvviso inospitale perché costruito ad immagine e somiglianza dei poteri che l’hanno plasmata ed è quindi funzionale solo ad essi. Le reti di relazioni potrebbero venir distrutte in un battito d’ali dalla fuga verso luoghi in cui è ancora possibile la sussistenza, dove non esiste solo cemento. Con l’impossibilità di procurarsi benzina e magari non poterci telefonare o scrivere mail, vivere insieme diventa necessario per poter vivere bene e cospirare insieme. Scegliere le persone con cui stare, se vogliamo stare con altre persone, perché il futuro potrebbe essere incerto. Se ci auguriamo che le antenne saranno bruciate e le infrastrutture crollate, occorrerà capire come reinventarci la vita, e dove. E forse conviene cominciare a porsi questi interrogativi, anche se abbiamo sempre pensato che il problema della distruzione fosse così enorme da non dover mai porci, nelle nostre vite, altre questioni. E cominciare a seminare qualcosa, perché non è detto che, con la produzione just in time, esistano ancora depositi di pasta da assaltare o magazzini da saccheggiare vicino a dove abitiamo (1). Il cibo potrebbe finire anche prima che sboccino i fiori.
Forse la Comune di Parigi sarebbe durata più a lungo se dalle campagne fossero insorti gruppi di rivoluzionari che in ordine sparso avessero attaccato le retrovie dell’esercito repubblicano rompendone l’accerchiamento.

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Quale di questi due scenari pensiamo che potrebbe essere più plausibile? A seconda dei luoghi e delle sensibilità le risposte potrebbero essere differenti.
Senza ricette, ma con le idee chiare
Usciamo dall’illusione che il crollo dello stato e del Dominio possa essere un processo uniforme. Su tutto il territorio mondiale le dinamiche e le tempistiche saranno diverse, a macchia di leopardo, rendendo in breve tempo più caotica e confusa la situazione.
Forse non avremmo mai pensato di scriverlo davvero, rassegnati come ormai siamo all’ineluttabile realtà del nostro mondo. Ma potremmo davvero riuscire a vedere la nascita di forme di vita altre. Sarà difficile giudicare, come eravamo abituati a fare, le diverse situazioni da lontano. 30 km potrebbero distanziare esperienze e modi di vita differenti, separati da un cordone sanitario di militari e polizia.
Non si possono dare ricette, oggi meno di ieri. Occorre intelligenza, generosità, sfrontatezza ed intuizione per capire cosa fare, dove e come, con che tempi. Quali sono i tempi della distruzione e della costruzione non è faccenda uniforme per tutte le sensibilità. Tuttavia una sola cosa potrà rendere traducibili le esperienze e comunicabili le intuizioni: la chiarezza di intenti. E che, in questo periodo di trasformazione, resti ben ferma la volontà di distruggere ogni forma di potere dal mondo in cui viviamo, dentro e fuori di noi.

Per l’Attacco, qui e ora.
Per la Vita, qui e ora.

Amici di penna

(1).  Riportiamo alla memoria questo vecchio contributo di A. M. Bonanno sulle prospettive insurrezionali e su alcune sue riflessioni rispetto alle capacità organizzative, mentali e fisiche che occorre sviluppare (cfr. ad esempio pag. 21): https://collafenice.files.wordpress.com/2013/09/trascizione-incontro-23-giugno.pdf.

Fonte: plagueandfire.noblogs.org.


La catastrofe si chiama capitalismo, ed è la regola. Un comunicato (e un appello) da Berlino (29/03/2020)

“Noi occuperemo…

finché non dovremo più farlo”, scrivevamo. Abbiamo spesso occupato case a Berlino, molte sono state di nuovo sgomberate. Ma ora la situazione è diversa. In tempi di “crisi”, questa frase può trasformarsi in un appello: “Unitevi a noi, facciamo in modo che succeda ovunque!”.

Il COVID-19 si sta diffondendo in sempre più aree del mondo evidenziando che il cosiddetto stato di catastrofe è la regola. Perché laddove gli stati costringono paternalisticamente e rigorosamente a “rimanere a casa”, non tutti ne hanno una. Come se non bastasse, lo stesso stato ha aumentato il numero dei senzatetto sfrattandoli, sta chiudendo tutti i dormitori e anche le mense dove i senzatetto potevano racimolare quantomeno un tozzo di pane, dell’acqua, del sapone. Ma, sempre lo stato, con il suo moralismo contraddittorio, ci esorta patriarcalmente a fare “attenzione all’igiene”.

Anche “evitare il contatto sociale” è ciò che i governi ci chiedono di fare. Ma dove dovrebbero rincasare i rifugiati quando sono ammassati nei campi di deportazione e nelle prigioni che si trovano nelle frontiere esterne dell’Europa e nelle periferie in Germania? Oltre a togliere loro ogni diritto umano – come l’asilo, la libertà di movimento e di alloggio – sono stati anche privati della possibilità di una protezione efficace contro il COVID-19. La catastrofe in questo paese è che nemmeno le ultime macerie che restano di questo sistema sanitario sono accessibili a tutti. È una farsa sociale il fatto che i medici, i paramedici e gli infermieri che hanno dichiarato questo stato di emergenza molto prima della pandemia da COVID-19 siano stati ignorati. E per questo motivo meritano tutta la nostra solidarietà. Presto dovranno decidere, come in Italia, chi può vivere e chi deve morire. Questo di per sé è catastrofico. La catastrofe si chiama capitalismo. Ed è la regola. Da giorni affittuari, associazioni sociali e i partiti socialdemocratici chiedono la confisca delle case di vacanza e dei posti liberi per metterli a disposizione dei senzatetto e dei richiedenti asilo. Mentre ambiguamente i governi dichiarano che rimanere a casa e isolarsi è la protezione più efficace contro il coronavirus, la città di Berlino ha creato 350 posti in un ostello della gioventù e un impianto di raffreddamento. Spacciare questa mossa per solidarietà è puro cinismo. Nella situazione attuale, la confisca degli alloggi è un dovere sociale. Ecco perché occuperemo.

Unisciti a noi!
Saluti da Berlino a tutti coloro che stanno lottando!

[Ricevuto via e-mail].