(it-fr) Italia: Quarantena o morte!?

https://finimondo.org/sites/default/files/roger-parry-femme-soufflant-dans-un-gros-coquillagend.jpgItalia: Quarantena o morte!?

«Le malattie infettive sono un argomento triste e terribile, certo, ma in condizioni ordinarie sono eventi naturali, come un leone che sbrana uno gnu o un gufo che ghermisce un topo» − David Quammen, Spillover, 2012.

O come un terremoto che fa tremare il suolo, o come uno tsunami che sommerge le coste. Laddove non provocano vittime, o quasi, questi fenomeni non vengono nemmeno notati. È solo quando il macabro conteggio comincia a salire che cessano di essere considerati eventi naturali per diventare immani tragedie. Ed assumono contorni terribili e insopportabili soprattutto quando si verificano sotto i nostri occhi, qui ed ora, non in un continente o in un passato lontani facili da ignorare. Ora, quand’è che questi eventi di per sé naturali seminano la morte? Quando il loro verificarsi non viene tenuto minimamente in considerazione, presupposto per non prendere alcuna misura precauzionale nei loro confronti. Costruire case in calcestruzzo in zone altamente sismiche, ad esempio, è un modo sicuro per trasformare un terremoto in una catastrofe. In attesa delle prossime piogge, disboscare una montagna significa preparare una frana che spazzerà via il paese sottostante, così come cementare il letto di un fiume che attraversa zone abitate significa promettere un’esondazione che manderà sott’acqua sotterranei e parti basse degli edifici.

Lo stesso si può dire di una pandemia. Se un microrganismo è in grado di uccidere ovunque non è perché la natura è tanto cattiva e deve essere perciò addomesticata dalla scienza che è buona. Prendiamo ad esempio il coronavirus: prima l’organizzazione sociale dominante lo ha creato (con la deforestazione e l’urbanizzazione), poi lo ha diffuso in tutto il pianeta (con la circolazione aerea e il sovraffollamento), infine ne ha aggravato gli effetti (con la carenza di mezzi idonei a curarli e la concentrazione delle persone più predisposte e sensibili al contagio, trasformate in cavie delle più disparate terapie somministrate secondo discutibili criteri). Tenuto conto di ciò, dovrebbe essere chiaro che il modo migliore per ostacolare il più possibile la comparsa di un virus maligno – impedirla del tutto sarebbe pretenzioso quanto impedire un uragano, considerato poi che il corpo umano è sempre pieno di virus e di batteri di vario genere – è di sovvertire da cima a fondo il mondo in cui viviamo, al fine di renderlo meno favorevole allo sviluppo di epidemie. Mentre il modo migliore per evitare un’eventuale infezione è quello di rafforzare il sistema immunitario.

Si tratta di una duplice prevenzione, sull’ambiente generale e sui corpi particolari, che però non riscuote alcun favore. La prima perché comporta una trasformazione sociale ritenuta utopica in quanto troppo radicale, la seconda perché è un intervento biologico considerato insufficiente in quanto troppo individuale. Rimedi troppo vaghi e lontani, soprattutto viziati da un difetto fondamentale: non sono erogabili da uno Stato cui si è affidato il compito di sollevare dalla fatica di vivere. Insomma, misure poco pragmatiche e non rivendicabili all’alto. Nulla a che vedere con il potenziamento dei servizi sanitari o l’invenzione di un vaccino, rimedi oggi impetrati a gran voce da tutte le parti.

Nel nostro universo mentale a senso unico la questione della salute è come tutte le altre, oscilla fra le due corsie della via maestra data per scontata e obbligata: settore pubblico gestito dallo Stato oppure settore privato gestito dalle imprese? Poiché il secondo è riservato ai ricchi, è dal primo che la stragrande maggioranza delle persone si attende con urgenza la salvezza. Tertium non datur, direbbero i latini (e chi accusa i critici del sistema ospedaliero di fare il gioco delle cliniche di lusso). Ma dato che questa via maestra è quella perorata dal dominio e dal profitto, non sarà certo privilegiando una corsia rispetto all’altra che si potrà cambiare una situazione che è frutto proprio dell’esercizio del dominio e della ricerca del profitto.

Ecco perché è necessario fugare l’aura di ineluttabilità che fa da scudo a questa società, impedendo di intravedere altre possibilità. Qui però si sbatte contro una difficoltà in più. Quando e come uscire di strada per esplorare altri sentieri, se quando si gode di ottima salute non si pensa mai alla malattia, mentre quando si è malati si pensa solo a come venire guariti il più in fretta possibile? E come riuscirvi senza mettere in discussione non solo l’istituzione medica, ma anche il concetto stesso di salute, nonché il significato di sofferenza, di malattia e di morte?

Pensiamo ad esempio a come oggi chi osa osservare che la morte fa parte della vita, soprattutto superati gli ottant’anni di età, venga bollato di cinismo malthusiano (da chi, da aspiranti all’immortalità transumanista?). Oppure pensiamo alle considerazioni formulate a suo tempo da Ivan Illich sulla nemesi medica. Se oggi, in piena psicosi da pandemia, questo critico non certo sospettabile di estremismo anarchico fosse ancora vivo e si azzardasse a fare uno dei suoi interventi, verrebbe linciato prima sulla piazza virtuale e poi su quella reale. Ve lo immaginate se, davanti ad un pubblico distanziato e con i suoi asettici dispositivi di protezione, in spasmodica attesa di un vaccino salvifico, qualcuno cominciasse a sostenere che «solo limitare la gestione professionale della sanità può permettere alla gente di mantenersi in salute», o che «il vero miracolo della medicina moderna è di natura diabolica: consiste nel far sopravvivere non solo singoli individui, ma popolazioni intere, a livelli di salute personale disumanamente bassi. Che la salute non possa se non scadere col crescere della somministrazione di assistenza è una cosa imprevedibile solo per l’amministratore sanitario», o che «nei paesi sviluppati, l’ossessione della salute perfetta è divenuta un fattore patogeno predominante. Ciascuno esige che il progresso ponga fine alle sofferenze del corpo, mantenga il più a lungo possibile la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all’infinito. È il rifiuto della vecchiaia, del dolore e della morte. Ma si dimentica che questo disgusto dell’arte di soffrire è la negazione stessa della condizione umana», magari concludendo con la preghiera «non lasciateci soccombere alla diagnosi, ma liberateci dai mali della sanità»?

Simili affermazioni, in giorni isterici come quelli che stiamo attraversando, apparirebbero come minimo di cattivo gusto persino a certi militanti rivoluzionari, ridotti chi ad attribuire ad uno Stato capitalista il compito di debellare un virus capitalista, chi a passare dal ruggito libertà o morte! al miagolio quarantena e sopravvivenza!. Eppure, la tanto bramata autonomia che si vorrebbe raggiungere facendola finita con tutte le dipendenze, può mai rinunciare alle sue intenzioni davanti al corpo umano, alla sua vita come alla sua morte?

[4/5/20]

[Tratto da finimondo.org].

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Italie: La quarantaine ou la mort!?

« Les maladies infectieuses sont un sujet triste et terrible, bien sûr, mais dans des conditions ordinaires ce sont des événements naturels, comme un lion dévorant un gnou ou un hibou saisissant une souris » − David Quammen, Spillover, 2012.

Ou comme un tremblement de terre qui fait trembler le sol, ou comme un tsunami qui submerge les côtes. Là où ils ne provoquent pas de victimes, ou presque, ces phénomènes ne sont même pas remarqués. Ce n’est que lorsque le comptage macabre commence à grimper qu’ils cessent d’être considérés comme des événements naturels pour devenir d’immenses tragédies. Et ils prennent des dimensions terribles et insupportables surtout lorsqu’ils se produisent sous nos yeux, ici et maintenant, plutôt que sur un continent ou dans un passé lointains et faciles à ignorer. Alors, quand est-ce que ces événements naturels en soi sèment-ils la mort ? Lorsque leur survenance n’est pas du tout prise en considération, préalable pour ne prendre aucune mesure de précaution face à eux. Construire des maisons en béton dans des zones hautement sismiques, par exemple, est une manière assurée de transformer un tremblement de terre en une catastrophe. En attendant les prochaines pluies, déboiser une montagne signifie préparer un glissement de terrain qui balaiera le village en contrebas, tout comme cimenter le lit d’une rivière qui traverse des zones habitées signifie promettre une crue qui inondera souterrains et parties basses des bâtiments.

On peut dire la même chose d’une pandémie. Si un micro-organisme est capable de tuer n’importe où, ce n’est pas parce que la nature est si méchante et doit donc être domestiquée par la science qui est gentille. Prenons par exemple le coronavirus : l’organisation sociale dominante l’a d’abord créé (avec la déforestation et l’urbanisation), puis elle l’a diffusé à travers toute la planète (avec la circulation aérienne et la concentration de population), et elle en a enfin aggravé les effets (avec le manque de moyens adéquats pour les soigner et la concentration des personnes les plus prédisposées et sensibles à la contagion, transformées en cobayes des thérapies les plus disparates administrées selon des critères discutables). En tenant compte de cela, il devrait être clair que la meilleure façon de freiner le plus possible l’apparition d’un mauvais virus – l’éviter étant aussi prétentieux qu’éviter un ouragan, vu que le corps humain est rempli en permanence de virus et de bactéries en tout genre – est de subvertir de fond en comble le monde dans lequel nous vivons, afin de le rendre moins propice au développement des épidémies. Tandis que la meilleure façon d’éviter une éventuelle infection est de renforcer le système immunitaire.

Il s’agit d’une double prévention, sur le milieu en général et sur les corps particuliers, qui ne rencontre pourtant pas les faveurs. La première parce qu’elle implique une transformation sociale jugée utopique puisque trop radicale, la seconde parce que c’est une intervention biologique considérée insuffisante puisque trop individuelle. Des remèdes trop vagues et lointains, surtout gâtés par un vice fondamental : ils ne sont pas applicables par un État auquel on a confié la charge d’alléger la fatigue de vivre. En somme, des mesures pas très pragmatiques et qui peuvent être revendiquées par le haut. Rien à voir avec l’amélioration des services de santé ou l’invention d’un vaccin, remèdes aujourd’hui implorés à grand voix de toutes parts.

Dans notre univers mental à sens unique, la question de la santé est comme toutes les autres, elle oscille entre les deux couloirs de la voie royale tenue pour évidente et obligée : secteur public géré par l’État ou secteur privé géré par des entreprises ? Puisque le second est réservé aux riches, c’est du premier que la très grande majorité des personnes attend urgemment le salut. Tertium non datur, auraient dit les latins (en chœur avec ceux qui accusent les critiques du système hospitalier de faire le jeu des cliniques de luxe). Mais vu que cette voie royale est celle prônée par la domination et par le profit, ce n’est certainement pas en privilégiant un couloir plutôt qu’un autre qu’il sera possible de changer une situation qui résulte de l’exercice de la domination et de la quête du profit.

Voilà pourquoi il est nécessaire de dissiper l’aura d’inéluctabilité qui sert de bouclier à cette société, en empêchant d’entrevoir d’autres possibilités. Mais on rencontre alors une difficulté supplémentaire. Quant et comment sortir de la route pour explorer d’autres sentiers, si lorsqu’on jouit d’une bonne santé on ne pense jamais à la maladie, tandis que lorsqu’on est malade on ne pense qu’à comment être guéris le plus rapidement possible ? Et comment y parvenir sans mettre en cause non seulement l’institution médicale, mais aussi le concept même de santé, ainsi que le sens de la souffrance, de la maladie et de la mort ?

Pensons par exemple à la façon dont ceux qui osent observer que la mort fait partie de la vie, en particulier une fois quatre-vingt ans passés, sont taxés de cynisme malthusien (par qui, par les aspirants à l’immortalité transhumaniste ?). Ou pensons aux considérations formulées en son temps par Ivan Illich dans sa Némésis médicale. Si aujourd’hui, en pleine psychose de pandémie, ce critique certainement pas soupçonnable d’extrémisme anarchiste était encore vivant et qu’il tentait de faire l’une de ses interventions, il serait lynché d’abord sur la place virtuelle, puis sur celle du réel. Face à un public gardant ses distances et muni de ses dispositifs de protection aseptiques, attendant de façon spasmodique un vaccin salvateur, vous imaginez si quelqu’un commençait à défendre qu’ « une société qui réduirait l’intervention de professionnels au minimum serait la plus favorable à la santé », ou que « le vrai miracle médical moderne est diabolique : il consiste en ce que non seulement des individus mais des populations entières survivent à un niveau sous-humain de santé personnelle », ou que « dans les pays développés, l’obsession de la santé parfaite est devenue un facteur pathogène prédominant… Chacun exige que le progrès mette fin aux souffrances du corps, maintienne le plus longtemps possible la fraîcheur de la jeunesse, et prolonge la vie à l’infini. Ni vieillesse, ni douleur, ni mort. Oubliant ainsi qu’un tel dégoût de l’art de souffrir est la négation même de la condition humaine », en concluant peut-être avec cette prière « Ne nous laissez point succomber au diagnostic, mais délivrez-nous des maux de la santé » ?

De telles affirmations, dans des jours hystériques comme ceux que nous traversons, sembleraient au moins de mauvais goût, y compris pour certains militants révolutionnaires, réduits à attribuer à un État capitaliste la tâche d’un virus capitaliste, ou à passer du rugissement la liberté ou la mort ! au miaulement la quarantaine et la survie ! Mais l’autonomie tant convoitée que l’on voudrait atteindre en en finissant avec toutes les dépendances, peut-elle jamais renoncer à ses intentions devant le corps humain, à sa vie comme à sa mort ?

[Traduit de l’italien de finimondo.org, 4 mai 2020].