E’ stato pubblicato, in francese, il libro “Faccia a faccia col nemico. Severino Di Giovanni e gli anarchici intransigenti negli anni 1920-1930 in America del Sud”
«Ho molto amore per la nostra causa e sono capace di tutto per favorirla», scriveva Severino Di Giovanni in una lettera a un compagno qualche mese prima d’essere fucilato. Il suo amore per l’ideale anarchico non era platonico: erano le sue ardenti palpitazioni a spingerlo ad elevarsi sul culmine ribelle del pensiero e dell’azione. L’anarchismo non è solo azione, come non è unicamente pensiero: unisce i due aspetti in un grande abbraccio appassionato. In buona compagnia, Severino è andato fino in fondo al suo amore. Alcuni dei suoi compagni sono morti sotto i proiettili degli sbirri, altri hanno trascorso molti anni dietro le sbarre; alcuni sono partiti in esilio per sfuggire alla repressione, altri hanno potuto continuare ad aprirsi sul posto, nei meandri della guerra sociale, il proprio percorso di combattenti per l’ideale.
Se il loro campo d’azione principale era l’Argentina e il lato uruguaiano del Río de la Plata, gli anarchici che si ritrovarono là negli anni 1920-1930 provenivano da tutto il mondo. Molti erano fuggiti dalla reazione fascista in Italia, altri dalla spietata repressione in Spagna, altri ancora, come migliaia di emigranti, erano arrivati attratti da una falsa promessa di felicità. Qualcuno era già stato espulso a causa della sua attività sovversiva negli Stati Uniti, ma diversi fra loro erano nati sulle rive del Río de la Plata, nella pampa argentina o ai piedi delle Ande. E la situazione in cui hanno sognato ed agito era tutt’altro che pacificata. L’industria argentina era in espansione, attirando un buon numero di investimenti di capitale straniero. I conflitti operai e contadini erano ritmati da scioperi, attentati, rivolte e spesso venivano repressi nel sangue. La più grande federazione sindacale del paese, la FORA (Federación Obrera Regional Argentina), era d’orientamento anarco-sindacalista e forte di una lunga tradizione di lotta. Il suo giornale, La Protesta, era l’unico quotidiano anarchico nel mondo. Ma molti altri raggruppamenti, sindacati, circoli e gruppi anarchici esistevano al di fuori della grande organizzazione. Non condividevano la tendenza accentratrice e respingevano l’attitudine da pompieri adottata regolarmente da alcuni dei suoi capetti. Vi erano, ad esempio, sindacati autonomi radicali di fornai, ferrovieri, portuali, imbianchini, meccanici, tassisti e muratori. Un altro grande periodico, il settimanale La Antorcha, esisteva e operava in senso più specificamente anarchico, ma molti altri giornali e fogli più piccoli venivano pubblicati in diverse città e regioni del vasto paese. Inoltre, c’erano numerosi circoli di anarchici immigrati, raggruppati più che altro per regione o paese di origine.
La seconda metà del decennio 1920 è stata segnata da un massiccio movimento di solidarietà internazionale per strappare Sacco e Vanzetti alla sedia elettrica, dall’ascesa del fascismo e dei regimi totalitari in Europa e da un’accentuazione dello sfruttamento capitalista in tutto il mondo prima della Grande Depressione degli anni 30. E sulle rive del Río de la Plata, Severino Di Giovanni e i suoi compagni hanno dato vita a un anarchismo intransigente. Intransigente per le idee, rifiutando di confondere l’anarchismo con una sorta di sindacalismo radicale, con una versione più dura del socialismo politico o ancora con un antifascismo democratico. Intransigente anche nell’azione: il loro ideale non era solo una visione del mondo, una filosofia di vita, una prospettiva di trasformazione sociale, era anche una dichiarazione di guerra a ogni autorità, a tutti coloro che rappresentano e difendono autorità. E in questa guerra, non ci poteva essere tregua possibile.
Questi anarchici si organizzavano in differenti circoli e gruppi collegati tra loro per aiutarsi a vicenda, condividere una logistica clandestina ed elaborare piani di attacco più ampi. Essi consideravano la lotta anarchica come un tutto. L’agitazione può essere fatta attraverso giornali, volantini, tumulti, ed anche pistolettate e bombe. La rivoluzione è la via attraverso cui passare per abbattere l’idra statale, le sanguisughe capitaliste e la società autoritaria, ma non è un fulmine nel cielo sereno: è stimolata, preparata, incoraggiata e scatenata dalle azioni di minoranze agenti e da tentativi insurrezionali. Ed è per amore dell’anarchismo che questi refrattari ad ogni ordine hanno espropriato banche per sostenere gli anarchici incarcerati e finanziare la pubblicazione di giornali e libri. È per questo stesso amore che hanno abbattuto il torturatore e partecipato in modo esplosivo agli scioperi generali. È ancora per questo stesso amore che hanno fatto tutto il possibile per liberare i propri e criticare duramente i pontefici e i loro seguaci, che preferivano il belato da pecore di un grande movimento organizzato e diretto al fragore della battaglia di manipoli sparsi e di mischie d’insorti.
Il loro punto di partenza era l’individuo e la sua ribellione, e non una qualsiasi categoria sociale o un’organizzazione di massa. È del tutto naturale che si organizzassero in base alla loro affinità e conoscenza piuttosto che attraverso l’adesione formale ad un programma. Se usavano l’espressione «anarchismo autonomo» era per sottolineare la loro indipendenza rispetto alle organizzazioni sindacali (comprese quelle di tendenza libertaria) o alle organizzazioni di sintesi (incluse quelle anarchiche). Se si definivano «espropriatori anarchici» era per marcare la propria differenza rispetto a coloro che subordinavano le loro attività alle prescrizioni del codice penale. Tendevano verso la qualità in tutto ciò che facevano: la lotta per le idee come un canto di vita. Per loro, l’anarchismo era anche bellezza, gioia, sensibilità, compagnia di complici, generosità, coraggio… in altre parole, l’ascesa al culmine. Non per niente possiamo trovare nelle pagine di Culmine o di Anarchia, giornali curati da Severino e dai suoi compagni, non solo inviti all’azione, apologie di attacchi, articoli di agitazione e di analisi sociale, ma anche poesie, estratti letterari, testi storici e filosofici, variazioni sul libero amore e recensioni artistiche. Perché quando la vita brucia, vuole divorare tutto. Dice sì a tutte le possibilità, afferma con fierezza la volontà individuale.
Non sorprende che giornalisti e potenti abbiano trattato Severino e i suoi compagni da «terroristi» e «banditi». Sull’altro versante, certi anarchici dell’epoca li hanno definiti «provocatori» e «fascisti». Non contenti di condurre sul loro quotidiano La Protesta una campagna sistematica contro «l’anarco-banditismo» che avrebbe causato tanti mulinelli nelle acque stagnanti del «movimento ufficiale», hanno per di più aggiunto calunnie ed infamie, in particolare contro Di Giovanni. La storia dell’anarchismo è piena di discussioni e polemiche, a volte molto aspre e virulente come accadde in Argentina alla fine degli anni 1920, e ciò ne costituisce in parte anche la ricchezza. Se i principi di rifiuto di ogni autorità, in tutte le sue forme, costituiscono il cuore del movimento anarchico, esprimendo una tensione verso la liberazione da ogni giogo, esso batte al ritmo delle discussioni e delle divergenze su metodi di lotta, prospettive di trasformazione sociale, forme organizzative. Non è certamente questione di temere il dibattito (anche se duro) che contrappone, o di deplorare la polemica che divide (nel senso di un’esposizione incrociata di qualche punto di vista nettamente differente). Se le idee ci stanno a cuore, occorre anche amarle e difenderle, pronti eventualmente a mischiarsi con altri. D’altra parte, la calunnia e l’infamia sono armi che hanno ferito più gravemente delle pallottole del nemico. Questi procedimenti sono spesso impiegati, ieri come oggi, da coloro che vogliono esercitare un’egemonia sul movimento, che non sopportano che alcuni decidano di correre, anche in tutti i modi, piuttosto che seguire la lenta marcia («del movimento», «della storia», «delle contraddizioni sociali», ecc.), e dai rinnegati che non hanno nemmeno la dignità di riconoscere la loro rinuncia all’anarchismo che un giorno hanno forse abbracciato, ma che è ormai diventato troppo gravoso ed esigente per loro.
Se la storia di questo anarchismo senza compromessi del Río de la Plata è in gran parte misconosciuta, probabilmente ciò è dovuto al suo contenuto inquietante, ai suoi gesti eclatanti, al suo ardore che spinge ad andare con audacia oltre i codici stabiliti (compresi quelli del «movimento»). Ironia della sorte, alla fine è stato un giornalista democratico libertario e ottimista dell’essere a dedicarsi alla fine degli anni 70 a una notevole ricerca negli archivi per disseppellire la storia degli «anarchici espropriatori». Il suo libro è stato proibito e bruciato dai militari argentini al potere, il che non ne avrebbe impedito la successiva diffusione e traduzione in altre lingue (in qualche caso sovvenzionate dallo Stato argentino). Da allora sono stati pubblicati alcuni altri saggi, tutti con grosse lacune, ma come il libro di chi definiva Di Giovanni «l’idealista della violenza» nessuno è riuscito o ha cercato di ricostruire i diversi percorsi di queste decine di anarchici espropriatori in Argentina ed Uruguay, e ancor meno di fornire gli elementi per collocare, comprendere e dialogare con il loro anarchismo intransigente, basato sull’autonomia dell’individuo e dei gruppi, la coordinazione degli sforzi, l’azione minoritaria, la solidarietà.
Questi anarchici, riesumati a dispetto dell’oblio interessato cui erano stati destinati dai rivoluzionari dalla corteccia cerebrale di carta, strappati dagli interessi accademici desiderosi di confinarli tra la mitopoiesi e la riduzione dei loro percorsi a mera esaltazione della violenza anarchica. Sottratti all’opera vergognosa degli increduli, che consideravano Severino incapace di amare ma che tuttavia ne pubblicavano le lettere d’amore alla giovane amante; persone mediocri che non capiranno mai i sentimenti di chi detesta vivere in catene perché ama troppo il coraggio di distruggerle. «Ciò che ci motiva è esclusivamente il grande amore per le nostre cose», scriveva Severino a un compagno. L’attenzione insidiosa che è stata loro dedicata fino ad oggi è molto al di sotto delle aspirazioni che animavano questi compagni. Proponiamo in francese quest’opera che finalmente darà loro un posto degno e coerente nel nostro patrimonio anarchico.
Ma è opportuno un altro avvertimento. Chi si aspetta una lettura chiara e scorrevole rimarrà deluso. Chi vorrebbe leggere un romanzo d’avventure in mancanza di vivere la propria avventura, farebbe bene a metterlo da parte immediatamente. Perché questo libro, l’anarchismo di cui parla, non si presta ad una facile digestione. Se gli appelli sono focosi, il sangue scorre spesso e volentieri. Se l’amore per l’anarchia è infinito, l’ardore per vivificarlo può essere implacabile. Se la convinzione e il coraggio spingono ad andare verso il culmine, le cadute sono tanto brusche quanto brutali.
Ci si potrebbe porre qualche domanda. Cosa resta oggi di un tale anarchismo focoso e appassionato? Ci sono ancora oggi compagni che si lanciano senza freni in battaglia, che agiscono secondo le loro possibilità, che si danno i mezzi e sono disposti a fare sforzi per andare oltre queste possibilità? Che abbracciano l’azione e il pensiero, mescolando la chimica esplosiva alle detonazioni della poesia viscerale?
La rosa fiorita in quel decennio sulle rive del Río de la Plata era un anarchismo che univa in un grande abbraccio tutti gli aspetti della guerra contro l’autorità. Dedicarsi con lo stesso entusiasmo alla redazione di un giornale come all’espropriazione di una banca, a diffondere la parola anarchica tra gli scioperanti come a dinamitare un consolato, alla paralisi del trasporto ferroviario come alla costituzione di una tipografia, all’amore per i propri complici come alla distruzione delle istituzioni: ecco un abbraccio che cinge la vita per intero.
Se ciò di cui tratta questo libro non è una reliquia del passato, un racconto appartenente a un’epoca morta e sepolta, ma da qualche parte anche un suggerimento attuale per tutti, spetta all’individuo ribelle raccogliere la sfida e intraprendere a sua volta l’ascesa verso il culmine del pensiero e dell’azione.
[Introduzione a Face à face avec l’ennemi. Severino Di Giovanniet les anarchistes intransigeants dans les années 1920-1930 en Amérique du Sud, coedizione Tumult/L’Assoiffée, 2019]
Per richieste:
tumult_anarchie@riseup.net – lassoiffe@riseup.net
[Tratto da finimondo.org].